AUSCHWITZ, 27 gennaio 2005. Quaranta capi di Stato e di governo, ma anche 10mila ex detenuti e partigiani antifascisti e 50 delegazioni ufficiali. Alle cerimonie per il sessantesimo anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, oggi, sono annunciati fra gli altri, i re del Belgio Alberto II, la regina Beatrice d’Olanda, il granduca del Lussemburgo e esponenti delle Case Reali di Danimarca, Norvegia, Svezia e Gran Bretagna. Ci saranno anche i presidenti di Israele, Germania, Russia, Ucraina, Francia e Polonia. Per l’Italia, il presidente del consiglio Silvio Berlusconi: “E’ per me motivo di grande orgoglio – ha detto il premier – rappresentare l’Italia ad Auschwitz e rendere onore a tutti coloro che vi hanno perso la vita e a tutti coloro che hanno conosciuto l’orrore”. Per il ministro degli Esteri Fini si deve “vergognare chi minimizza il ruolo delle leggi razziali”. Per Romano Prodi, invece, è più che mai necessario ricordare queste vicende alle nuove generazioni.
CREDERE L’INCREDIBILE
di BARBARA SPINELLI
NOI non sappiamo che cosa sia realistico o non realistico: noi qui stiamo morendo tutti! Vai a dire questo!». Con queste parole Leon Feiner, attivista dell’organizzazione Jewish Socialist Bund, si accomiatò da Jan Karski nel ’42, dopo l’invasione nazista della Polonia. Era ormai chiuso nella trappola che Varsavia era divenuta per gli ebrei, e Karski era la sua unica speranza. Karski era un diplomatico polacco, cattolico, che nel ’41 era entrato clandestinamente nel Paese occupato e aveva visto l’essenziale: il ghetto di Varsavia, il campo di sterminio di Belzec alla frontiera con l’Ucraina, le stelle gialle, l’uccisione per le strade di donne, bambini. Era un testimone prezioso e fu incaricato di raccontare gli eventi a Londra e in America, mostrando i filmati presi nella spedizione. Non fu ascoltato, se non da pochi. Non gli credette nessuno, tranne qualche spirito profetico. Fu così sempre, nei genocidi del XX secolo. Dopo aver letto il rapporto di Karski e visto i suoi film, Ignacy Schwarzbart in nome del Consiglio nazionale polacco di Londra inviò un telegramma al Congresso Ebraico Mondiale, alla fine del ’42: «Ebrei in Polonia quasi completamente annientati – STOP – A Belzec costretti scavare loro tomba suicidio di massa centinaia di bambini gettati vivi in canali di scolo – STOP – Ebrei nudi trascinati camere della morte – STOP – Migliaia di vittime quotidiane intera Polonia – STOP – Credere l’incredibile – STOP». Credere l’incredibile: ecco la frase che spiega tanti misteri, nelle reazioni del mondo a Auschwitz. Che spiega il silenzio, l’indifferenza delle democrazie, dei maestri di pensiero e di religione. Furono numerosi perfino gli ebrei, a non credere: negli Stati Uniti, Karski non riuscì a smuovere Felix Frankfurter, giudice della Corte Suprema, e Isaiah Berlin – nel ’42 lavorava all’ambasciata britannica di Washington – non vedeva più di un pogrom, una persecuzione abituale. Stessa reazione l’ebbero dirigenti sionisti come Nahum Goldman, Chaim Weizmann, David Ben-Gurion. Scrive la studiosa Samantha Power, in un libro esemplare, che i rappresentanti della civiltà vivevano in «un crepuscolo tra il sapere e il non sapere» (Voci dall’Inferno, Baldini Castoldi Dalai 2004). Questo era dunque il contesto, in cui i contemporanei di Auschwitz pensavano, operavano, prima della liberazione dei campi sessant’anni fa. Questa la sensibilità ottenebrata, la mancata percezione del carattere inedito dell’orrore: il contesto è qualcosa che gli storici non possono ignorare, e che secondo molti giustifica silenzi e omissioni non solo durante, ma dopo lo sterminio. Lo si è potuto constatare nell’avvincente dibattito aperto dal Corriere della Sera su Pio XII e l’ordine, nel ’46, di non restituire alle famiglie i bambini ebrei salvati e battezzati durante il genocidio. La storia non si giudica con il metro del presente, è stato detto. E certamente non possiamo ignorare tutti quegli ingredienti (il contesto appunto, o come si dice oggi il comune sentire, l’orientamento largamente diffuso all’epoca dei fatti) che sono la stoffa di cui da sempre è fatto il Zeitgeist, e cioè quello spirito dei tempi teorizzato da Hegel e descritto da Goethe come «predominio» di un pensiero che «s’impossessa delle masse» e non tollera pareri contrari. Karski e altri non furono ascoltati, e tale era il Zeitgeist degli Anni 30 e 40. Lo era per vari motivi. Perché le sovranità degli Stati erano intangibili, e la lotta a Hitler era contro la sua espansione militare. Il crimine era talmente inconcepibile da sembrare non possibile. Gli ebrei erano stati perseguitati tante volte, e non si vide lo strappo. Ma soprattutto non c’era un nome, per dirlo. Il crimine era non solo inconcepibile ma ineffabile, dunque condannato a restare nel crepuscolo tra dire e non dire, agire e non agire. Il richiamo allo Spirito dei Tempi si comprende, ma non è in realtà di enorme aiuto. Quel che avvenne durante il genocidio e dopo chiarisce il perché di tante rimozioni (compresa la rimozione in Israele; compresa la rimozione favorita dai comunisti in Est Europa: nei Lager le lapidi tacitavano il martirio degli ebrei, giudicato secondario rispetto a quello dei comunisti), ma è utile più per una cura di guarigione dopo il delitto, che per una cura che lo scongiuri. La questione davvero cruciale è un’altra, e la lezione di Auschwitz non concerne tanto l’espiazione-riparazione quanto la prevenzione. Come dice Freud criticando Dostoevskij: quel che conta nell’etica è evitare di fare il male, non anelare a lacerate espiazioni. E la memoria giova se salvaguarda i due ricordi: come si patì l’orrore e lo si pensò dopo, ma anche come fu intuito e ritenuto scongiurabile prima, se testimoni e moniti fossero stati ascoltati. Di questo gli storici non si occupano molto, anche perché la figura del testimone non ha sempre diritto di cittadinanza nei loro archivi. Eppure è questo che può aiutare a capire, ad agire: la rievocazione degli allarmi che furono lanciati da un certo numero di illuminati. Lo studio del loro carattere, del loro metodo. Esaminando le opere di chi seppe dire l’orrore, si apprende una grande lezione: non è necessaria una vista specialmente acuta, né occorre attendere di avere un’idea sulle idee del genocidio (questo il significato di vocaboli improbi come concettualizzazione, contestualizzazione della Shoah). È sufficiente avere una quantità modica di decenza, non influenzabile dalle circostanze. E per istituzioni come il Papa di Roma, è sufficiente – lo ricorda Claudio Magris – rammentare che la Chiesa non è figlia del Zeitgeist ma difende «verità ritenute immutabili». L’antigiudaismo tradizionale che allignava nel cristianesimo aveva creato un clima favorevole all’antisemitismo hitleriano ma non aveva a che fare con Auschwitz. Qualcosa di nuovo era apparso in Europa, un antisemitismo che non spingeva gli ebrei né a convertirsi né a fuggire ma che li chiudeva in spazi chiusi e li annientava. E il nuovo che irrompe nel presente, solo uno sguardo profetico può intuirlo: non perché il profeta anticipi l’avvenire, ma perché sa descrivere il presente. Solo i profeti e i vigili hanno quel che serve: non una visione storicizzata dell’etica ma un’immaginazione morale, e la capacità di dare un nome all’Inferno. Non mancarono uomini simili, dotati di fantasia etica. Basta ricordare due nomi, a parte Karski. Il primo è Arnold Schönberg: nel libro Un Programma in Quattro Punti per l’Ebraismo, scritto fra il ’33 e il ’38, il musicista fa la lista meticolosa degli ebrei minacciati da Hitler che vivono in Germania, Austria, Europa centro-orientale: «C’è posto nel mondo per circa 7 milioni di persone? O questi milioni sono condannati alla finale rovina? A divenire un popolo estinto, affamato, macellato?». Schönberg fa capire che non l’eroismo s’impone. Basta un po’ d’anticonformismo, ed essere «osservatori svegli, realistici». Così l’immaginazione morale si mette a servizio del realismo, solitamente evocato per giustificare omissioni. Schönberg aveva visto montare l’antisemitismo nuovo fin dai primi Anni 20, in Austria. Il secondo è Raphael Lemkin, un giurista polacco che dopo il genocidio degli armeni nel ’15 aveva capito quale disastro può nascere da crimini prima non visti, poi impuniti. Poco prima di invadere la Polonia, Hitler aveva rassicurato così i comandanti del proprio esercito: «Chi ricorda ancora, oggi, il genocidio degli armeni?». Nessuno lo ricordava perché non esisteva ancora un nome per simile crimine, e solo il nome poteva fondare secondo Lemkin una giurisprudenza internazionale. Il 24 agosto ’41, mentre i nazisti avanzavano in Russia, Churchill aveva detto alla Bbc: «Interi distretti vengono sterminati, migliaia sono le esecuzioni a sangue freddo. Dall’invasione dei Mongoli non s’è visto un mattatoio simile. Siamo in presenza d’un crimine senza nome». Grazie a Lemkin, il crimine senza nome riceverà invece un nome, già nel ’43: genocidio. E una volta trovato il nome si potrà poi legiferare. Nel ’48, l’Onu approva una Convenzione sul genocidio, e a Norimberga il reato di cui saranno accusati i nazisti sarà genocidio. Negli Anni Cinquanta si troverà il nome di Olocausto (lo storico ebreo Poliakov nel ’51, lo scrittore cattolico Mauriac nel ’58). Poi, sulla scia del film di Claude Lanzmann, si parlerà di Shoah. Dare un nome è cruciale, se si vuol far fronte agli stermini prima che succedano. Per Ruanda e Bosnia non si volle usare la parola genocidio, perché la convenzione Onu comporta il dovere d’intervento. Anche l’annientamento con armi chimiche di circa 100.000 curdi iracheni nell’87 non fu chiamato genocidio. Furono le amministrazioni Reagan e Bush senior a opporsi, perché Saddam era allora un prezioso alleato. Divenne nemico da abbattere quando stava diventando, grazie a ispezioni e sanzioni, nella sostanza innocuo. Il motivo per cui contano più i prodromi che la successiva elaborazione della colpa è che nel futuro varrà la pena prevenire ecatombi simili, piuttosto che trovare il modo più eccelso di piangere i morti. Per far questo, bisogna non solo dare il nome al delitto, come ha fatto Lemkin, ma riscrivere un intero vocabolario, a partire dall’esperienza di Auschwitz. Bisogna ridefinire la classica politica di potenza e dunque la sovranità assoluta degli Stati, stabilendo che essi non possono fare qualsiasi cosa sul proprio territorio. Bisogna avere l’immaginazione morale atta a dire l’indicibile, l’incredibile. Non bisogna dare colori metafisici agli eventi: Auschwitz è uno sterminio di popoli (ebrei, polacchi, zingari); non è né un misterico sacrificio (un Olocausto) né un’esperienza che riguarda solo gli ebrei. E non sono coinvolti solo etnie ma modi di essere, di vivere (malati mentali, omosessuali). Bisogna rivedere il concetto di comune civiltà umana, liberandola dagli unanimismi: la civiltà umana, dice Ignatieff, è unita nella coscienza della propria diversità. Nessun essere sulla terra si differenzia come gli uomini (per colore di pelle, religione, stili di vita), ed è questo il tesoro da salvare. È perché non c’è ancora questo vocabolario che tanti tabù, legati a Auschwitz, rischiano oggi di cadere. Tra questi: l’eugenetica; o la tortura dei prigionieri di guerra, costretti a denudarsi e a vedersi umiliati nella propria religione (Abu Ghraib). Torna infine il bisogno di capro espiatorio: il bisogno di individuare categorie nemiche, per appartenenza religiosa o modi di vita. Come dice Ignatieff, il genocidio comincia con la promessa di creare un mondo senza diversi, senza nemici, fatto di gente tutta eguale. Comincia con un’utopia, e quest’utopia mortifera è dentro ciascuno di noi. E siccome l’utopia è dentro di noi, e l’orientamento diffuso tra la gente e i politici tende negli ultimi tempi a assecondarla, Auschwitz è sempre di nuovo possibile.
LA STAMPA
QUEL BAMBINO DI NOME DAVID
di ENZO BIAGI
Non si cancella il passato: su un muro di Auschwitz lessi: «Chi non conosce la storia sarà costretto a riviverla». C’è un giorno per ricordare: prima, però, raccontiamo che cosa accadde, di quante infamie sono capaci gli uomini, perché i nostri figli sappiano. Una volta, tanti anni fa, andai nel ghetto di Varsavia. Gli uccelli e il vento avevano lasciato cadere qualche seme tra le macerie, e da una finestra spuntavano le foglie di un susino. C’era, e credo ci sia ancora, un monumento con nastri, corone e una lapide. Annotava: «Il popolo ebraico ricorda il sangue dei suoi martiri».
Allora non pensavo che avrei avuto una tenera nipotina che di nome si chiama Rachele, e una notte ho sognato, io che non ricordo mai le avventure notturne, che la tenevo per mano e non la lasciavo mai, e scappavamo nei boschi dove sono stato partigiano. Ho quattro nipoti: per lei, quando vado a certe funzioni della sua fede, metto il cappello, per gli altri lo tolgo.
Anch’io, nel Giorno della Memoria, ho il pensiero e il rimpianto per un bambino polacco, un cappelluccio di pezza in testa (così, in una fotografia ingiallita), un sorriso mite, quasi rassegnato. Della sua famiglia non è rimasto nessuno, solo io un vecchio italiano se lo porta dentro, anche se di lui conosce solo le pagine del suo diario e quello che gli raccontarono quando andò a cercare di narrare la sua breve vita. Si chiamava David Rubinowicz, e la sua maestra, la grassa e dolce signora Florentyna Krogolec, mi disse: «David, se voleva, poteva salvarsi. Era biondo come un tedesco».
Morì soltanto perché il suo nome era David. Aveva dodici anni, era figlio di un lattaio, scomparve nell’autunno del 1942: un treno partì dalla stazione di Suchedniowo, forse si fermò a Belsen o a Dachau o a Auschwitz o a Buchenwald. C’erano quasi duecento stazioni di transito prima di arrivare a Dio.
Di lui sono rimasti una pagella, alcuni quaderni, la fotografia di una gita scolastica: il volto di David, nell’immagine un po’ confusa, si perde tra quegli altri bambini di campagna che portano la borsa di tela legata con le cinghie alla schiena.
Andai a cercare il ricordo del piccolo polacco anche sulle colline del suo villaggio e nel bosco dove trovò rifugio durante un rastrellamento e là vide la volpe che gli faceva paura. Ho visto la vecchia scuola dove aveva imparato a leggere, sono entrato nella soffitta dove si nascondeva, ho incontrato il compagno di banco: aveva la faccia segnata e i capelli grigi. Di tutti i Rubinowicz era rimasta solo una cugina, fuggita poi in Israele.
Per due anni, ogni giorno, egli ha annotato i suoi «strani pensieri» e le vicende di quel paese sotto l’occupazione tedesca. David non è Anna Frank, è un contadino, forse non ha mai visto un cinematografo o ascoltato un pianoforte. Il giorno che uccidono una ragazza «che era un fiore» è sgomento. «Ormai – scrive – verrà la fine del mondo». Va a cercare nella severità della Bibbia una qualche ragione: «La colpa è tutta di Abramo».
L’ultima data del diario è il primo giugno 1942; la pagina comincia con questa frase: «Giorno di felicità». Felicità è una parola troppo difficile per David. Poi arrivano «le guardie». È il 21 settembre e di David Rubinowicz si perdono le tracce.
CORRIERE DELLA SERA

