Lo hanno ucciso mentre tornava a casa in bicicletta per il pranzo. Ieri mattina, poco prima delle 13, Raffaele Ranucci, 58 anni, pregiudicato e capo dell’omonimo clan di Sant’Antimo, è stato colpito da cinque colpi di pistola calibro nove, esplosi da un killer, che a bordo un’auto guidata da un complice, aveva seguito la vittima. I proiettili hanno centrato la testa e il collo di Raffaele Ranucci, che nonostante le gravissime ferite, ha pedalato ancora un paio di volte. Poi è stramazzato di lato, cadendo dalla sua bicicletta privo di vita, nei pressi di un piccolo cancello di ingresso di un palazzo, in via Fermi, alla periferia di Sant’Antimo, a solo qualche decina di metri dall’abitazione del boss, sorvegliata dalle telecamere. Il killer, che per essere sicuro di aver eseguito la missione di morte, è sceso dall’auto e si è preso il tempo di chinarsi verso il corpo del boss, per controllare se Raffaele Ranucci era ancora vivo. Poi avuto la certezza che non respirava più, è salito sulla macchina che è ripartita con una lunga sgommata, sparendo in pochi attimi. E i primi soccorsi, prestati dalla moglie e dai tre figli che erano subito accorsi in via Fermi, dopo aver sentito gli spari, si sono rivelati inutili. Sul posto sono arrivati qualche minuto dopo l’agguato, i carabinieri della locale tenenza, e i militari della compagnia di Giugliano che hanno dovuto riportare la calma, tra le decine di persone che avevano circondato il corpo di Raffaele Ranucci, che aveva preso il posto del fratello Geremia, fondatore del clan, ucciso in un negozio di barbiere a Calabritto nel dicembre del 1996. Difficile l’interpretazione di questo delitto eccellente, che potrebbe riaprire la vecchia faida che contò una cinquantina di morti ammazzati. Uno scontro feroce, combattuto a Sant’Antimo per tutto il decennio a cavallo tra gli anni ottanta e novanta e che vide contrapposti il clan Verde a quello dei Ranucci – Puca, con l’appoggio esterno della cosca dei Petito. Gli investigatori, coordinati dal pubblico ministero Raffaella Capasso della Dda intervenuta sul posto, hanno mantenuto uno stretto riserbo. In città però, dopo l’omicidio di Carlo Cascella, socio di Raffaele Ranucci, il capoclan, ucciso nel suo bar di Sant’Antimo ad ottobre dello scorso anno, era circolata la voce che i killer, quella sera d’autunno volevano regolare i conti proprio Raffaele Ranucci, e che avevano ucciso il socio, perché questi li aveva riconosciuti. Gli investigatori, però non escludono nemmeno la pista del regolamento di conti all’interno del cartello Ranucci-Puca. Da qualche mese, secondo gli inquirenti, molti appartenenti al clan Ranucci, sarebbero passati tra le fila dell’organizzazione capeggiata da Pasquale Puca, detto «o’ minorenne», e indicato come il personaggio in ascesa della criminalità organizzata di Sant’Antimo.
Gestiva gli affari di una famiglia decimata
Sant’Antimo. Un capoclan dal basso profilo. Raffaele Ranucci girava in bicicletta come un qualsiasi pensionato. Ma per polizia e carabinieri gestiva insieme a Carlo Cascella, ucciso sette mesi fa nel suo bar, una serie di attività diversificate. Dal recupero credito allo sconto di assegni, dal commercio dei video giochi alla compravendita di partire di merce varia. Dopo l’uccisione del fondatore del clan, Geremia, avvenuta dieci anni fa, la guida del clan era passata a un altro fratello, Domenico, detto ” Mimmotto”, successivamente arrestato e condannato a una lunga pena detentiva. Da allora Raffale Ranucci aveva assunto un ruolo di primo piano nella conduzione delle attività illecite del clan. E non solo. Si era fatto carico anche di fare da ”tutore” a suo nipote Stefano Ranucci, figlio di Geremia, quello che gli inquirenti indicano come il possibile nuovo capo del clan. Sette mesi fa, quando fu trucidato Carlo Cascella, improvvisamente Raffaele Ranucci si era fatto più prudente, non usciva di casa tanto spesso, intuendo quello che le voci di piazza di Sant’Antimo davano per certo, e cioè che era proprio lui quello che i killer cercavano ora di uccidere. Poi, da qualche mese, si era fatto rivedere per strada, riprendendo apparentemente la solita vita quotidiana, ma con maggior baldanza e ostentazione, abbandonando quel basso profilo che gli aveva evitato anche nella fase più cruenta dalla faida contro i Verde, sia di essere arrestato che di finire nel mirino delle batterie di fuoco del tembile clan avversario. Questo cambiamento di comportamento e la convizione di poter ripotare il clan ai vertici della mappa criminale di Sant’Antimo, avrebbero determinato, già sette mesi fa, la sua condanna a morte. In realtà ranucci era convinto di essere tornato nuovamente «intoccabile». Una convinzione che lo ha trasformato in un bersaglio mobile, proprio sulla sua bicicletta.
MARCO DI CATERINO – IL MATTINO 14 MAGGIO 2006