QUALIANO – Tormentato dal racket aveva pagato milioni su milioni per due anni, sempre zitto con la morte nel cuore, poi non ce l’aveva fatta più ed era andato a raccontare tutto alla polizia. Sottoposto a programma di protezione, era andato avanti per un po’, poi grazie alle sue testimonianze gli uomini del pizzo erano stati arrestati e la protezione gli era stata tolta. Ieri, a distanza di anni, temuti e inaspettati, i fantasmi del passato si sono rifatti vivi. E sull’imprenditore edile Domenico Cacciapuoti, 56 anni, la notte prima dell’alba ha rivomitato intatte tutte le paure di nove anni d’inferno.
Stavano dormendo in via Nazario Sauro, a Qualiano, quando, intorno alle quattro del mattino, l’intera famiglia dell’uomo è stata svegliata da rumori come di botti e da bagliori: non si trattava di una festa, erano gli uomini del racket che gli avevano appena incendiato casa e le sue due auto. A raccontarlo è lui stesso. Urla, terrore, tutti gli abitanti della palazzina, tre appartamenti in tutto, in preda al panico. Pochi minuti e arriva la polizia, arrivano i pompieri a salvare la palazzina. Ma le auto sono ormai ridotte a due carcasse e in cenere è andata pure la sottilissima speranza dell’imprenditore di riprendere una vita normale. Sull’inquietante episodio indagano il commissariato di Giugliano diretto dal vicequestore Francini e la squadra mobile di Napoli. La pista privilegiata è quella della vendetta. Ieri sera stessa Cacciapuoti e la sua famiglia sono stati trasferiti in due diversi luoghi segreti. L’uomo è di nuovo sotto protezione. E per tutti il calvario ricomincia. La vita di Domenico Cacciapuoti era stata stravolta dal 1993, quando aveva deciso di non stare più ai patti con il racket. Per la precisione, si trattava degli uomini dell’allora potente clan Alfano, che dominava i quartieri collinari del Vomero e dell’Arenella. All’epoca le cose sembravano andare bene per l’imprenditore, lui era titolare di un’impresa con 38 dipendenti e tre anni prima si era aggiudicato i lavori di ristrutturazione di un palazzo in via Domenico Fontana, di proprietà di Giulio Ferlaino. «Si presentarono Maurizio Brandi, Tonino Caiazzo e Luigi Cimmino – raccontò allora Cacciapuoti – Chiesero 300 milioni, mi accordai per cento milioni, in quattro rate da 25. Ma poi arrivammo a 197 milioni. Alla fine non ce la feci più: sono stato una settimana con il pm Cafiero a raccontare due anni di ricatti». Da quel momento per l’uomo nulla è stato come prima: minacce, auto incendiata, il trasloco forzato. Poi il lavoro andato a rotoli, arrivano i debiti. Ma la polizia fa piazza pulita: il clan viene decapitato. Molti di quegli uomini vengono processati e condannati definitivamente. Per la sentenza, i magistrati ritengono essere state fondamentali anche le deposizioni di Cacciapuoti. Intanto quest’ultimo si ritiene rovinato, spera nel fondo-vittime del racket, ma il denaro ancora non arriva.
Ieri il passato che ritorna. Raggiunto telefonicamente l’uomo appare sconvolto: «Per me non c’è speranza – dice piangendo – sono un morto vivente. Sono stato abbandonato da tutti, anche da mia moglie e i miei figli, dicono che li ho rovinati. Ho un ragazzino di 13 anni, poi un maschio e una femmina più grandi. Spero solo che li tutelino. Stanotte addirittura sono stato picchiato da un vicino. Abbandonerò l’Italia. È meglio che mi uccidano, così chiudiamo la partita».
MAURIZIO CERINO
CARLA DI NAPOLI
Il Mattino 21 ottobre 2002