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«MIO ZIO PER AMORE SI ERA CONVERTITO ALL’ISLAM»
Melito: parlano i parenti di Santoro, l’italiano ucciso in Iraq

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MELITO. Via Righi, ex traversa quarta Melitiello. Numero 19, ex 8, con il vecchio civico spuntato da un segno sul muro. In questa palazzina, poco lontano dal centro di Melito, abita Maria Luisa, 49 anni, sorella di Salvatore Santoro, l’italiano ucciso in Iraq. Ha saputo di quello che era capitato al fratello mercoledì sera, dal telegiornale. Dopo una notte d’ansia, un’altra giornata febbrile, trascorsa accanto al telefono. Fino alle 19, quando è arrivata l’amara chiamata dalla Farnesina. Maria Luisa è chiusa in casa nel suo silenzioso dolore, il negozio di cornici del marito – che si trova poco lontano – oggi è chiuso. Insieme a lei ci sono il marito Giovanni, le tre figlie e l’anziana madre, Carolina Maione, 76 anni. Il padre di Maria Luisa e Salvatore, Vincenzo Santoro, è morto alcuni anni fa: nel ’61 fu lui, allora bracciante agricolo a Pomigliano d’Arco, a decidere di cercare fortuna in Inghilterra e ad approdare a West Bromwich, dove crebbe i suoi sei figli – tre nati a Pomigliano, gli altri in Inghilterra – lavorando duramente, anche come carpentiere e muratore. Carolina non sa nulla della sorte del figlio: vive in via Fratelli Bandiera, poco lontano, ora è in via Righi insieme ai parenti. Una donna già provata dal dolore per la morte del marito e di un altro figlio, giunta dopo una lunga e dolorosa malattia. A Maria Luisa fanno vedere la foto del passaporto rinvenuto in Iraq, in un ingrandimento a colori. «Sì, è Salvatore». Poi viene sopraffatta dal dolore: non ce la fa ad affrontare taccuini e microfoni in attesa all’ingresso del palazzo, per lei parla il marito Giovanni Pagano. «Non rivangate i vecchi errori che Salvatore ha commesso. Si è riscattato ampiamente. Lavorava a Londra, dove comprava e rivendeva auto. Era diventato molto religioso e per questo aveva deciso di partire per l’Iraq. Andava in Medio Oriente da molto tempo, dopo la sua conversione. Non mi risulta che avesse legami con istituzioni britanniche». Salvatore ha un’altra sorella, Carolina, che vive in Campania, a Sant’Antimo. Da parte della madre, ha parenti anche a Scafati, San Giuseppe Vesuviano, Casalnuovo, Volla. Salvatore mancava dall’Italia da circa nove anni: da quando nacque una nipote, l’ultima delle tre figlie di Maria Luisa. Nell’ultima occasione nella quale si erano sentiti al telefono – un anno fa – Salvatore aveva chiesto a Maria Luisa di andare con lui in Iraq. Una decisione osteggiata dal resto della famiglia, per la paura di tragiche conseguenze. La nipote Immacolata Pagano chiede rispetto mentre piange: «Mio zio è una persona completa, speciale. Non ci sentivamo spesso, ma ci scrivevamo. Ha avuto dei guai con la giustizia, ma non per fatti di droga. In seguito si è riscattato, mettendosi contro tutta la famiglia per le sue scelte. Solo per questo avevamo interrotto i rapporti, perchè si ostinava ad andare lì, dove c’è la guerra… Noi avevamo paura per lui, ma lui niente». Voleva sposarsi? «No, ma forse per una donna ha abbracciato l’islamismo». Dal portone si affaccia un’altra nipote di Salvatore: «Con tutto il rispetto per il signor Fini, non c’è nessuna vicenda oscura nella vita di mio zio. Non è un poco di buono, non ha commesso nessuna rapina: è andato lì soltanto per fare opere di bene». Nel portone di via Righi entra un fiume di parenti che vengono a portare conforto, ma non la rituale folla di membri delle istituzioni. A portare solidarietà alla famiglia Santoro vengono il sindaco di Pomigliano Michele Caiazzo, quello di Melito Gianpiero Di Gennaro e infine l’assessore regionale Adriana Buffardi, anche a nome del presidente Bassolino. «Salvatore non era un delinquente – dice Caiazzo – né un malavitoso, rispettatelo. È fuori luogo parlare di cose accadute più di vent’anni fa, in seguito aveva avuto una condotta esemplare. Era illuminato da un rinnovato spirito religioso, che lo avrebbe spinto ad affrontare il viaggio in Iraq nonostante il parere contrario dei familiari, per cercare di portare conforto e la parola di Dio ad un popolo stremato dagli orrori della guerra».

FABIO JOUAKIM – IL MATTINO 17 DICEMBRE 2004


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LA GUERRIGLIA RIVENDICA L’UCCISIONE DI SANTORO





Roma. In un cd contenente quattro fotografie e in un breve filmato con le stesse immagini, ci sono i frammenti degli ultimi momenti di vita di Salvatore Santoro. L’italiano freddato con due colpi di kalashnicov, secondo quanto riferito da fonti irachene, dai miliziani sunniti, per aver forzato un posto di blocco e investito un ribelle vicino a Ramadi. Santoro ha gli occhi bendati, come aveva raccontato il fotografo iracheno, Biliail Hussein, ad un giornalista dell’agenzia Ap, ma è stato riconosciuto attraverso la comparazione con altre fotografie. «Anche se il riconoscimento formale d’identità non è al momento possibile in assenza del ritrovamento del corpo e di testimonianze verificabili – ha spiegato la Farnesina – dai primi confronti delle immagini con le foto disponibili di Salvatore Santoro emergono elementi che inducono a ritenere che possa trattarsi del signor Santoro». Il cadavere mostrato nelle immagini è adagiato su una cunetta di sabbia, ai due lati, in posa ci sono due miliziani. Santoro ha le mani legate dietro le spalle, è senza scarpe ma con i calzini, indossa un pullover ed un giaccone pesante. Sembra morto, ma nel fotogramma non si vede alcun segno di sangue sul volto o sulla testa. Di spalle non è stato ripreso. Accanto a lui ci sono dei miliziani, prima due, in piedi come se mostrassero un trofeo, e poi quattro, ma senza il corpo, in un altro luogo, presumibilmente di preghiera. I miliziani, infatti, sono tutti scalzi e poggiano i piedi su un grande tappeto rosso. Alla parete su un lenzuolo bianco la scritta in arabo «Movimento islamico dei Mujaheddin dell’Iraq». La stessa scritta con i miliziani in primo piano compare nel video trasmesso, dopo 24 ore di inspiegabile silenzio, da Al Jazira: nel filmato i miliziani rivendicano l’uccisione dell’italiano definito «un seguace degli americani». Il cd con le fotografie è arrivato ieri di buon ora sul tavolo dell’ambasciatore italiano a Baghdad, Gianludovico De Martino, che lo ha a lungo analizzato con gli uomini dell’intelligence. Nelle immagini vengono mostrati i documenti di Salvatore Santoro: il passaporto italiano, una carta di credito Visa rilasciata da una banca tedesca, un permesso di soggiorno libanese della validità di un anno e un visto di ingresso iraniano. Tutti questi documenti esibiti dai miliziani al fotografo iracheno che, contattato dall’ambasciata, non ha voluto rivelare ulteriori particolari sul luogo esatto dove ha visto il corpo di Santoro e su quanto gli è stato riferito dai ribelli. Il fotoreporter ha motivato il suo silenzio spiegando di essere stato minacciato di morte. È certo che la presenza di Santoro in Iraq non era stata segnalata all’ambasciata a Baghdad e che la sua richiesta, fatta tra l’8 e il 9 dicembre all’ambasciata italiana ad Amman, di avere un visto per poter portare aiuti umanitari ai bambini iracheni era stata respinta. Santoro non faceva parte di nessuna organizzazione umanitaria, come aveva lui stesso dichiarato. La Charity of Englad and Wales, ha smentito categoricamente di avere tra i suoi collaboratori Santoro. Contattati nella capitale irachena, i rappresentanti delle Ong britanniche hanno negato di conoscere l’italiano emigrato in Inghilterra nel lontano ’61. Anche il presidente dell’Associazione delle Ong italiane, Sergio Marelli, ha sottolineato di non aver mai sentito il nome del campano, aggiungendo che i trascorsi di Santoro in Gran Bretagna, scarcerato nell’84 dopo sei anni di reclusione per frode, uso di sostanze stupefacenti e per essersi sottratto alla custodia cautelare, sono in «evidente contraddizione con i criteri di selezione dei volontari delle Ong».
e.r.






L’emigrante dei misteri si era convertito all’Islam



di FABIO JOUAKIM


Melito.
Un uomo che aveva commesso degli errori, ma che poi si era riscattato. Oppure un ex pregiudicato diventato molto spregiudicato. Un uomo che da quando si era avvicinato all’Islam era stato investito dalla fede, fino a lasciare la sua attività a Londra – commercio di auto di lusso – per andare via da solo, come volontario, ad aiutare i bambini iracheni. Oppure un uomo che lavorava sotto copertura nel triangolo sunnita, senza alcun legame con organizzazioni umanitarie. Chi era Salvatore Santoro, l’italiano ucciso a Ramadi? E perché era in Iraq? Il quadro fatica a prendere forma, avvolto com’è da una nebbia di reticenze e misteri. E a seconda del narratore, il racconto della vita di Salvatore cambia: se, per la famiglia, il protagonista è un uomo generoso e speciale, che di recente aveva intrapreso il suo percorso di fede, le notizie che rimbalzano dall’estero dipingono anche una realtà diversa. In una storia da ricostruire legando insieme i mille fili che da Pomigliano, da dove Salvatore partì nel ’61 (a nove anni) con la famiglia, portano a Londra, in Spagna, in Libano e infine in Iraq. E comunque molto lontano dalla palazzina di via Righi 19 a Melito, dove la sorella di Salvatore, Maria Luisa, 49 anni, si strugge aspettando notizie da Roma, dopo aver passato una giornata accanto al telefono e prima dell’amara conferma proveniente dalla Farnesina, che giunge intorno alle 19. Una lontananza che ha reso i rapporti con la famiglia radi e complicati: gli stessi parenti che vivono in Campania, tra Sant’Antimo e Melito, confermano di non avere notizie precise delle attività e degli spostamenti degli ultimi anni di Salvatore. Anche sull’ultimo domicilio conosciuto di Salvatore non c’è certezza. Il fratello Ciro, che vive in Inghilterra, dice in un italiano incerto, infarcito di espressioni dialettali: «L’ultima volta che l’ho visto era dodici anni fa, abitava in Spagna». Ciro parla di ville comprate e vendute, di Ferrari e Porsche, di una vita lussuosa. Poi racconta che il fratello aveva una relazione con una donna araba, per la quale aveva lasciato la sua compagna britannica. «Gli ha insegnato a comunicare con l’aldilà. Dice che adesso parla con i morti». Poi nella sua casa di Birmingham arriva la telefonata di un diplomatico italiano che lo informa del dramma del fratello. E Ciro conclude così: «Ho parlato con i miei parenti in Italia. Mi hanno detto di non dire niente. Hanno trovato solo un passaporto e questo per ora non significa niente». Per il consolato italiano a Londra, l’ultimo indirizzo di Salvatore era vicino Portobello, dove vive oggi l’ex compagna di Salvatore, Madeleine Gerard. Che racconta: «La casa spagnola di Malaga era in affitto. Salvatore viveva a Beirut dal 2002». Da quando, cioè, aveva lasciato Madeleine dopo sedici anni, per la donna araba citata anche da Ciro. «Era cambiato negli ultimi due anni, da quando si era convertito all’Islam – prosegue la donna – Il Corano glielo aveva fatto leggere una donna libanese di cui si era infatuato. Diceva che era il figlio di Dio e doveva aiutare i poveri bambini iracheni». All’ambasciata italiana a Beirut, Salvatore aveva detto di lavorare per conto della organizzazione non governativa «Charity for England and Wales», notizia poi smentita. Inoltre aveva un passaporto italiano rilasciato dall’ambasciata italiana ad Amman, in Giordania, in sostituzione di quello ottenuto in Gran Bretagna perché deteriorato. Sul documento c’era anche un visto iraniano. E a Beirut aveva ottenuto il visto iracheno. All’ambasciata italiana in Giordania Santoro aveva detto che il nuovo passaporto gli serviva per andare a Beirut dove avrebbe dovuto sposare una ragazza libanese. Un puzzle complicato da risolvere, del quale forse nemmeno la famiglia ha visto tutte le tessere. Dei sei fratelli (tre uomini e tre donne), Maria Luisa manteneva i rari contatti con Salvatore. Oggi il suo negozio di cornici, a pochi passi da via Righi, è chiuso. Maria Luisa non si muove di casa, dove ci sono i tre figli e la madre Carolina Maione, 76 anni, che è all’oscuro della sorte del figlio. Maria Luisa è sopraffatta dal dolore, per lei parla il marito Giovanni Pagano. «Non rivangate i vecchi errori, Salvatore si è riscattato. Andava in Medio Oriente da tempo, dopo la sua conversione religiosa». Nell’ultima occasione nella quale si erano sentiti al telefono – un anno fa – Salvatore aveva chiesto a Maria Luisa di andare con lui in Iraq. Sulla decisione di Salvatore la famiglia non era d’accordo, aveva paura che succedesse qualcosa di brutto. La nipote Immacolata dice piangendo: «Mio zio è una persona completa, speciale. Si è messo contro la famiglia perché si ostinava ad andare lì, dove c’è la guerra. Solo per questo avevamo interrotto i rapporti». Dal portone si affaccia un’altra nipote: «Salvatore non è un poco di buono: è andato lì soltanto per fare opere di bene».






Ipotesi della Farnesina: legami con servizi segreti




di ELENA ROMANAZZI




Roma. È proprio in Libano, dopo un lungo giro nel Medioriente – è stato in Siria ed anche in Iran – che Santoro riesce ad ottenere quello che il consolato italiano gli aveva negato. Perché tanta insistenza? I funzionari della Farnesina dopo aver messo al loro posto alcuni tasselli del puzzle della vita di Santoro, emigrato in Inghilterra nel ’61, si sono a lungo interrogati, consultandosi con i servizi d’intelligence, sui motivi che hanno portato l’italiano in Iraq. E in particolare sulla sua presenza a Ramadi, una zona, il cosiddetto triangolo sunnita, dove i guerriglieri controllano il territorio e in cui, senza una adeguata copertura, essere uccisi è molto facile. Esclusa l’ipotesi umanitaria, ieri al dicastero degli Esteri, è stata aperta un’altra pista, quella che trasforma Santoro da ex pregiudicato in un agente segreto di una delle forze della coalizione, forse proprio al servizio degli inglesi. Questa strada non viene confermata. E, alla Farnesina, tutte le bocche sono cucite per evitare che questa vicenda si trasformi in un incidente diplomatico di proporzioni non indifferenti. I contatti con gli 007 degli altri Paesi presenti in Iraq sono stati avviati. Ma nessuno, al momento, avrebbe fornito indicazioni utili al ministero degli Esteri, per comprendere i reali motivi che hanno portato all’esecuzione – perché di questo si è trattato – dell’italiano. Tutti i viaggi effettuati da novembre ad oggi da Santoro sarebbero serviti per crearsi dei contatti nei paesi del Medioriente. I nostri 007 stanno cercando di appurare da dove esattamente sia arrivato in Iraq e soprattutto se abbia affrontato il viaggio da solo o in compagnia. Bilial Hussein, il fotografo iracheno, ha raccontato all’ambasciatore all’ambasciatore italiano a Baghdad, De Martino, di non aver assistito all’agguato e di essere stato prelevato dai miliziani, bendato, portato in una zona nei pressi di Ramadi, dove è stato costretto a riprendere il cadavere di Santoro. Dunque, non si sa se con Santoro, ci fosse qualcun altro e se questo qualcuno, magari scampato all’agguato, sia tenuto prigioniero da qualche parte. Il giallo del viaggio e dell’uccisione di Salvatore Santoro per la Farnesina è tutt’altro che risolto. Il lavoro d’intelligence è appena iniziato e al vaglio degli 007 c’è anche una donna, una libanese, forse la fidanzata di Santoro. Una donna sulla quale sono in corso degli accertamenti. La Procura di Roma, intanto, come è accaduto per altri sette sequestri avvenuti in Iraq, ha aperto un fascicolo sulla morte di Salvatore Santoro. L’indagine è affidata al pubblico ministero Franco Ionta e le ipotesi accusatorie prese in considerazione sono sequestro di persona con finalità di terrorismo e omicidio.





Fini, la forza della diretta




Debutto mediatico difficile, ma positivo per il ministro degli Esteri, Gianfranco Fini. E, per certi versi, quanto è accaduto mercoledì notte per il dramma, ancora in molti punti non chiarito di Salvatore Santoro, ha davvero, la valenza dell’esempio emblematico di come prende forma una notizia. L’intervento telefonico in diretta del ministro nel corso del «Porta a Porta» di Bruno Vespa ci ha letteralmente portati dietro le quinte della notizia, nel luogo in cui essa prende faticosamente corpo minuto dopo minuto. Fini, infatti, parlava dall’unità di crisi della Farnesina, da quella che in casi del genere è la principale, se non l’unica fonte. Stavolta a mediare tra le pressanti richieste dei giornalisti, assillati dai tempi di chiusura delle edizioni non erano funzionari o diplomatici. Il compito di fornire un aggiornamento praticamente in tempo reale se l’è assunto il ministro in prima persona. Interveniva telefonicamente ma sembrava di vedere i fogli accumularsi uno sull’altro, a volte per aggiungere particolari, a volte per introdurre nella vicenda un elemento totalmente nuovo. Costringendo tutti a ricominciare da capo. Chi era davvero Santoro? Che ci faceva nell’inferno del triangolo sunnita? Tante domande in cui telespettatori, giornalisti e ministro hanno lavorato quasi insieme. Non tutte le risposte sono arrivate, tante mancano ancora adesso. Ma i protagonisti della storia sono progressivamente entrati in scena. E per una volta tutti, pubblico, istituzioni e giornalisti, hanno interagito in modo perfettamente trasparente. Ciascuno rispettando il proprio ruolo. E, soprattutto, senza cliché e senza colore. g.cav.






IL MATTINO 17 DICEMBRE 2004

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