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SE IL BOSS DIVENTA UN EROE

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NAPOLI. Non c’è bisogno di grandi ricerche per conoscere che il rapporto con la produzione culturale, nel suo complesso, da parte dei giovani e degli adulti affiliati alla camorra, è non solo povero in termini quantitativi, ma tutto affidato ai cascami della cultura di massa, dalla televisione spazzatura alla “trival literature”, dai neomelodici, al repertorio più trito e consunto della canzona napoletana. Non c’è neppure da meravigliarsi nello scoprire che l’aggiornamento informativo si gioca tutto sulle pagine sportive e sulla cronaca nera di quotidiani e televisioni private di ambito cittadino e metropolitano. In realtà, i loro consumi culturali sono indipendenti dalla scelta di vita criminale perché sono gli stessi dei loro coetanei, giovani o adulti che siano, che vivono, lavorano, si arrangiano nei contesti marginali delle periferie o dei centri storici di Napoli o delle tante città dell’area metropolitana. Vivere a Napoli o a Casavatore, Caivano, Ercolano, Casoria, Qualiano, Pozzuoli, e via dicendo per tutti i 93 Comuni della provincia di Napoli, non fa alcuna differenza per quanto riguarda i consumi culturali dei giovani e adulti, accomunati dalla comune appartenenza a centri sociali segnati da un basso livello di scolarizzazione, da una cultura – in senso antropologico – che è una poltiglia di familismo, di violenza, di maschilismo, di religiosità e superstizione, di malinteso senso dell’onore, del rispetto, da attività economiche che nonostante tutti gli sforzi non riescono a dare una certezza al futuro, dall’ossessione del consumo come misura, visibile e misurabile, delle proprie capacità di azione e di intelligenza. Il dramma vero è che questa area sociale molto vasta e arriva a comprendere anche persone che a scuola hanno soggiornato a lungo, al livello di materne, elementari, medie, in molti casi anche di istituti superiori, senza ricavarne grande profitto soprattutto per quanto riguarda mentalità, modelli di comportamento, orientamenti di valore. L’impressione è che la scuola sia del tutto incapace se non di cambiare, di intaccare la cultura profonda – quella che regola il modo di pensare e agire – trasmessa per assorbimento dal “mondo della vita”- famiglia, parenti, amici, conoscenti, coetanei e adulti importanti – di cui si fa parte. Può molto di più la televisione, in quanto è visibile la sua opera di trasformazione di giovani e degli adulti, in condizione di marginalità e di penuria di mezzi, in “macchine desideranti”, in “consumatori ingordi” che del possesso e del consumo di “merci” fanno l’unica ragione della propria vita. Appare evidente che nei centri marginali più che negli altri ceti sociali, che oggi sono gli unici produttori di cultura di massa, stanno producendo personalità sempre di più totalmente “mercificate”, ridotte cioè ad essere quello che posseggono e che ostentato e che consumano e che, per procurarsi quegli oggetti, e per assicurarsi quello stile di vita, che è diventato la ragione stessa della loro esistenza, sono disponibili a tutto, anche ad uccidere, anche ad entrare stabilmente in una organizzazione criminale. Come si può fermare questa produzione di massa di personalità completamente mercificate? Questa è la domanda che mi sento di fare a chi con tanta leggerezza produce spettacolo, cultura, pubblicità, guardando spesso in modo altrettanto maniacale solo all’audience e agli indici di incremento delle vendite. Forse a difendere il cittadino -spettatore-lettore- ascoltatore-consumatore onnivoro dovrebbe pensarci la scuola, ma non certo questa scuola che ancora non ha capito che il suo compito principale, la sua missione, dovrebbe essere quella di dare strumenti per un’elaborazione consapevole e costruttiva della valanga di informazioni, conoscenza, modelli di valore, schemi d’azione e comportamento, riversata su tutti, ventiquattro ore al giorno, dalla cosiddetta industria culturale. Nei luoghi della camorra – come il “Terzo mondo” o le “case azzurre” – una selva di antenne e di paraboliche testimoni ampiamente di consumi televisivi spesso esasperati, da parte dei giovani come delle loro famiglie. Naturalmente consumano soprattutto prodotti segnati dalla napoletanità più retriva che non fanno che rinforzare l’universo valoriale già profondamente interiorizzato, senza mai mettere in discussione quella che potremmo definire la cultura camorristica. Quando si trasmettono film, spettacoli teatrali o di varietà, canzoni, nei quali il camorrista assume i connotati di un eroe positivo nel conteso di marginalità in cui opera, quando si fa informazione romanzando le gesta e la figura di camorristi violenti e sanguinari, non solo non si fa opera educativa, ma si fa promozione della cultura e delle azioni della camorra. In nessun Paese questo sarebbe consentito: nel nostro, queste emittenti, sono addirittura sovvenzionate dall’ente pubblico oltre che sostenute dagli investimenti pubblicitari. La lotta alla camorra passa per la scuola e la formazione, ma passa anche per gli organi di informazione e per la televisione.

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AMATO LAMBERTI Bollettino dell’Osservatorio sulla camorra e la legalità – CORRIERE DEL MEZZOGIORNO – 11 FEBBRAIO 2005
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