venerdì, Luglio 18, 2025
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Omicidio al bar Roxy: ergastolo a Cefariello


MONDRAGONE. Tre ore, tre ore soltanto per valutare l’attendibilità dell’unica testimone oculare, le prove raccolte dall’accusa, la tenuta della ricostruzione investigativa fatta dal pubblico ministero, le obiezioni della difesa. E in quelle tre ore la Corte ha deciso: Salvatore Cefariello è uno degli assassini di Giuseppe Mancone, spacciatore di Mondragone ucciso all’esterno del bar Roxy nella notte tra il 13 e il 14 agosto del 2003, due anni e mezzo fa. Nessuna attenuante, nessuna giustificazione possibile, nessuno sconto sulla pena più alta chiesta dal pm al termine della requisitoria. Alle 17,30 il presidente Maria Rosaria Cosentino ha letto il dispositivo della sentenza e ha condannato all’ergastolo il giovane Cefariello. Che nella gabbia, da dove aveva ascoltato le accuse del pm Raffaele Cantone e l’arringa dell’avvocato Bruno Spiezia sperando in una assoluzione, è sbiancato, realizzando solo allora che dal carcere non uscirà mai più, pur avendo vissuto soltanto 24 anni. Fu Salvatore Cefariello, quella notte, a sparare. Fu lui l’uomo individuato dal clan Birra per regolare i conti con Mancone, che tanti fastidi aveva creato agli «amici» mondragonesi della famiglia Fragnoli. Fu lui ad arrivare da Ercolano a bordo di uno scooter in compagnia di un complice non ancora identificato, a perdersi nelle campagne di Mondragone, a sparare fuori al bar, a scappare imboccando una stradina cieca, a ritrovare la via che lo avrebbe portato lontano dal paese, a bruciare il motorino. E fu lui che la maestrina incrociò mentre tornava a casa con le amiche. Aveva raccontato in aula, nell’udienza del 5 luglio scorso: «Mi ero trattenuta con due amiche fuori al bar Roxy, dovevamo decidere l’appuntamento per la gita di Ferragosto. Eravamo in bicicletta, si era fatto molto tardi. Ci siamo allontanate di qualche decina di metri, loro erano un po’ più avanti. Ho sentito il primo colpo di pistola, sapevo che non era la marmitta di una moto, e mi sono fermata. Il tempo di voltarmi e ho sentito il rumore degli altri spari, e poi gente che scappava, che scavalcava le auto. Dopo qualche istante è arrivato un motorino, volevo chiedere ai ragazzi che erano a bordo che cosa fosse successo. Mi sono voltata, ho incrociato il volto del conducente – ho visto le sopracciglia folte, gli occhi – e poi l’altro ragazzo: alto, i capelli lisci e lunghi fino alle orecchie fermati con il gel. Diceva il primo: ”Tutto a posto? Hai fatto?”. E l’altro: ”Sì, sì, vai, vai…”. Quello dietro aveva la pistola in pugno, nera con una riga argentata. Ho tirato dritto, ho rincorso le mie amiche mentre quei due imboccavano una traversa senza uscita; ho visto che tornavano indietro e ho pensato che cercassero me. Ho corso come una disperata con la bicicletta, ho raggiunto le mie amiche, ci siamo infilate in un’altra traversa e poi siamo entrate nel giardino di una casa, che aveva le scale esterne. Le mie amiche si sono accovacciate per non farsi vedere, io ho avvertito i carabinieri con il cellulare». La ragazza aiutò gli investigatori a tracciare l’identikit dell’assassino. Fu inviato a tutti gli uffici investigativi della Campania e da Ercolano arrivò la risposta positiva: era identico alla foto di Cefariello. Che quella notte aveva il telefono sotto controllo: il segnale del cellulare aveva agganciato i ponti di Casapesenna e, cinque volte, di Mondragone. Giovanissimo, un fratello armiere del clan Birra a 15 anni, aveva fatto in tempo a collezionare denunce e arresti per spaccio di droga. Due mesi dopo l’omicidio Mancone sarà arrestato anche per un duplice tentato omicidio commesso a Ercolano: quello di Aniello Estilio, e della giovane moglie Assunta Bifulco, in attesa di un bambino.




LA REQUISITORIA

«Ecco perché è colpevole»



La testimonianza della maestrina, l’identikit accurato fatto grazie a lei subito dopo la sparatoria, il riconoscimento in aula. E poi: i tracciati telematici dei ponti telefonici che indicavano la presenza di Cefariello, nella notte tra il 13 e il 14 agosto, a Casapesenna e Mondragone. E infine: le dichiarazioni del pentito Massaro che ha spiegato prima alla Procura, poi alla Corte, le ragioni dello scambio di favori e di killer tra i mondragonesi del gruppo La Torre-Fragnoli e gli ercolanesi dei Birra. Per il pm Raffaele Cantone, che aveva coordinato le indagini dei carabinieri sull’omicidio di Giuseppe Mancone e che ha rappresentato la pubblica accusa nel processo in Corte di Assise (III sezione, presidente Maria Rosaria Cosentino, a latere Antonio Corbo), la prova della colpevolezza di Salvatore Cefariello è stata raggiunta grazie a questi tre elementi. Ma nella sua lucida e appassionata requisitoria ha valorizzato soprattutto la testimonianza della ragazza. «È come un fiore nel deserto, una rarità», una zona dove nessuno parla e nessuno ha mai visto nulla. «Ha collaborato con i carabinieri e con i magistrati senza alcuna altra ragione che non fosse il desiderio di verità e di giustizia. In cambio di nulla».


Vide i killer, li denunciò non ha più amici e lavoro



Abbandonata dagli amici, dai compagni di ballo, da una parte della famiglia. Non ha più la sua casa, non ha un’auto né può acquistarla. L’ha lasciata sola anche lo Stato, che ha liquidato la pratica, e la sua vita, con il cambio di generalità e uno stipendio che le consente di mangiare e di pagare le bollette ma non di ricostruirsi l’esistenza e un futuro. La «rosa nel deserto», come l’ha definita il pm Raffaele Cantone nella sua requisitoria, è una giovane donna di 35 anni, nata e vissuta a Mondragone fino alla metà di agosto del 2003. Fino alla notte in cui fu ucciso Mancone, era una ragazza come tante altre: aveva studiato fino al diploma di maestra d’asilo, aveva lavorato come trimestrale alle Poste, disegnava, andava a scuola di ballo, faceva lunghe passeggiate in bicicletta, si arrangiava come colf nelle case di alcuni professionisti della cittadina. Aveva un ragazzo che voleva sposare, un gruppo di amiche che vedeva quasi ogni sera e sogni, e speranze, normali. Ha perso tutto nella notte tra il 13 e il 14 agosto, quando sulla sua strada incrociò due assassini, li guardò in faccia, collaborò all’identificazione di uno di essi. Da allora le amiche le hanno tolto il saluto, la sua città l’ha respinta e lei vive in una località segreta con la qualifica di testimone di giustizia. Le avevano garantito che avrebbe potuto rifarsi una vita, in realtà ha soltanto rinunciato per sempre alla sua identità. Con il cambio di generalità, infatti, ha perduto il suo passato e cioè il diploma, gli attestati di specializzazione, l’iscrizione al collocamento, le referenze di quanti le avevano dato una piccola occupazione, sia pure in nero. Quando chiede un lavoro non può dire chi è, e neppure chi è stata: le sbattono la porta in faccia. Doveva toccare allo Stato, garantirle un futuro normale almeno quanto il passato che ha dovuto dimenticare. Come ringraziamento per la collaborazione offerta alla giustizia, le è solo stata sbarrata ogni porta.


ROSARIA CAPACCHIONE – IL MATTINO CASERTA 4 FEBBRAIO 2006