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«Io, fratello di Siani: si doveva indagare di più»

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A 17 anni dalla morte del cronista vittima della camorra: restano tanti misteri

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Giancarlo Siani, giornalista del Mattino , mezzo abusivo e mezzo no, fu ucciso sotto casa la sera del 23 settembre 1985. Pallottole di camorra mentre stava ancora con un piede dentro e uno fuori dalla sua Mehari, in via di Villa Majo. Un lunedì, anche diciassette anni fa. E Giancarlo di anni ne aveva venticinque. Il consiglio di famiglia dei Nuvoletta e dei Gionta aveva emesso la sentenza già a Ferragosto. Ma se ne andò l’estate, prima che si decidessero. Poi, e chissà perché, li prese la foga di sbrigare la faccenda. Allora spedirono un paio di killer su al Vomero. Un lavoraccio. Nelle due ore in attesa che Giancarlo tornasse dal giornale, si fecero vedere in faccia. Sparsero cicche ovunque. Orinarono sul muro, alla luce di un lampione. Più che la crema della camorra, parevano dei dilettanti. Che non fa senso. Insomma, dentro al buco nero di quel mese e mezzo tra condanna a morte e improvvisata esecuzione, indagini, processi e condanne all’ergastolo (tutti identificati e arrestati, esecutori e mandanti) non ci hanno ancora spiegato che cosa si nasconde. E non dev’essere un pezzo di verità da poco.
Di tutta la famiglia Siani, oggi è rimasto solo Paolo. Che s’è battuto per ottenere giustizia e, con sobrietà, condivide le iniziative legate alla memoria di suo fratello. «Di noi due, insieme, conservo l’immagine di una giornata a Roma, a una marcia per la pace. Io col gesso che gli dipingo in faccia il simbolo anarchico della libertà. E lui che mi sorride», ricorda Paolo. E ricorda il tempo delle indagini al buio: «Anni popolati da anime nere, dove non capisci se ti stanno prendendo in giro perché la verità non la vogliono trovare o non sono capaci di trovarla. Quando mi restituirono la Mehari di Giancarlo, aprii il cassettino e ci trovai la sua agenda. Non avevano nemmeno perquisito la macchina». Un’inchiesta condotta seguendo l’esatto contrario del metodo per il quale Giancarlo era stato ammazzato: scavo intorno alle notizie, ricostruzione dei fatti, senza autocensure. Anche questo Paolo ricorda: «Voleva fare il giornalista, a ogni costo. Dalla redazione di Castellammare, era riuscito ad entrare alla cronaca di Napoli». Cambio ferie nell’estate del 1985, poi dal 1° ottobre sarebbe stato assunto: praticante, non più mezzo abusivo. «E senza calci in culo, ma faticando. Così voleva lui».
I pentiti di camorra hanno raccontato che Giancarlo si giocò la pelle per un articolo pubblicato il 10 giugno 1985, in cui rivelava il retroscena dell’arresto di Valentino Gionta, boss di Torre. «La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di Nuova famiglia, i Bardellino», aveva scritto. E siccome Gionta era stato catturato a Marano, regno dei Nuvoletta, due più due uguale quattro: i Nuvoletta avevano «venduto» Gionta. Ovvero, erano degli infami. Intollerabile.
Fino a metà agosto, si tennero parecchi vertici di camorra in cui Lorenzo e Angelo Nuvoletta ribadirono che Giancarlo andava punito con la morte. Mentre Gionta, dal carcere, si opponeva perché non voleva pagarne le conseguenze. Poi a Ferragosto disse sì, pose una condizione: fatelo, ma non a Torre Annunziata. E qui si apre il buco nero. Giancarlo lascia Castellammare, va in cronaca a Napoli, scrive sempre meno di Torre e torna a battere un vecchio chiodo: i rapporti camorra-appalti, legati alla ricostruzione del dopo terremoto. Non articoli, ma un libro-inchiesta. «Che, dopo la sua morte, è sparito», dice Paolo Siani.
Era preoccupato nei suoi ultimi giorni, Giancarlo? Cambi d’umore? Segnali? Nulla di particolare dicono i colleghi, persino Paolo. Tranne una telefonata. All’ora di pranzo del lunedì in cui verrà ucciso, Giancarlo chiama Amato Lamberti, oggi presidente della Provincia, ideatore di un bollettino: l’Osservatorio sulla Camorra. «Mi fa: devo parlarti. Di cosa? E lui: meglio a voce. Va bene, dico: a che ora passo alla Caffetteria? Non qui vicino al giornale, ti richiamo io domattina, fa lui. Invece la mattina lessi la notizia. E m’è rimasto questo rovello, di questa cosa che non è riuscito a dirmi e del lavoro che stava facendo sulle collusioni tra camorra e sistema politico, dei partiti e degli amministratori locali. Lo ripeto, anche se mi hanno aggredito per questo: all’esecuzione di camorra e basta, io non ci credo. Quella morte è stata decisa ad altri livelli. E noi ci siamo accontentati della verità giudiziaria, peccato. Non è un buon modo per onorare la memoria di Giancarlo. Peccato davvero».


Andrea Purgatori – Corriere della Sera – 23 settembre 2002

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