di GIUSEPPE CRIMALDI
Nemmeno un fiore. Sulla strada della morte restano solo le chiazze di sangue, che nemmeno la pioggia è riuscita a portarsi via. Chissà quante volte l’ha percorso, quel tratto, Salvatore.
La chiamano la via dell’inferno, quella striscia d’asfalto che sfiora i caseggiati-alveare della periferia desolata a nord di Napoli. Fino a sabato qui si contavano solo le vittime della strada perché, raccontano, la zona è crocevia di traffici illeciti, a cominciare dallo spaccio di droga; e sono molti i tossicodipendenti che la percorrono a piedi per scavalcare il guard-rail e raggiungere senza dare nell’occhio lo spacciatore di turno che aspetta i clienti al di là dell’asse mediano.
Ora però altro è arrivato altro sangue, quello di due adolescenti, a marchiare per sempre la via dell’inferno. Le tracce sono ancora là, ma nel punto in cui se n’è andata la vita di Salvatore, a ridosso di un cordolo di cemento armato, nessuno ha pensato di lasciare un fiore. Nessuno, non uno soltanto di quei ragazzi che ieri mattina hanno voluto esser presenti dove era morto il loro amico, ha lasciato un biglietto, una scritta, un segno. La processione va avanti per tutta la mattinata. Nessuno indossa il casco, perché il casco – come il rosso del semaforo o le strisce pedonali – qui diventa un optional. E perché il casco, come la legge, resta quasi un fastidio. Sono in prevalenza adolescenti, ma questo non impedisce loro di mettersi a bordo di mezzi da 150 e 200 di cilindrata, e di guidarli senza problemi.
In linea d’aria, da questa terra di nessuno al centro del nulla ci saranno non più di duecento metri. E il centro del nulla è l’isolato G di via Labriola, dove Salvatore è cresciuto in una casa al quarto piano di un palazzo uguale agli altri, anonimo come tutti gli altri: nel cuore di un quartiere che, se lo guardi con gli occhi di chi non ci vive, potrebbe essere un’appendice della periferia suburbana di Valona. Tale e quale.
Cerchi una traccia, un segnale, un timido accenno di normalità: ti guardi intorno e ti accorgi che non c’è spazio nemmeno per la festa, per il Natale che è passato e per l’Epifania che sta arrivando in questa giornata di tragedia e di morte, a Scampia. nei viali che sembrano stati tagliati col rasoio da una mano crudele sfrecciano veloci auto e motorini. A pochi metri dall’isola G l’unico grumo di divertimento per chi ha ancora l’età che aveva Salvatore è una sala biliardo senza insegne e con spettrali luci a neon. Chissà quante volte Salvatore e Thomas, suo compagno di misteri e di solitudine, hanno varcato quella soglia, qui, in questo centro del nulla che guarda dritto a quel che resta delle famigerate «Vele».
Palazzoni alti anche quindici piani, anonimi come dormitori, appendici di un mondo alla fine del mondo. Strade larghe e deserte. Marciapiedi che nessuno percorre, e se pure qualcuno lo fa accetta i rischi: perché qui sei al centro di nulla e a duecento passi dalla via dell’inferno. Chissà quante volte la giovane vita di salvatore, e quella di Thomas, e di centinaia di ragazzi come loro, si sono chiesti se questo sia il migliore dei mondi possibili. Alle tre del pomeriggio il deserto sembra rianimarsi improvvisamente: per la festa della Befana i negozi di Scampia cercano di ritrovare la normalità perduta tenendo aperte le saracinesche. Ma due luci intermittenti e qualche addobbo natalizio non bastano: e qui i Re Magi non arriveranno né oggi né mai, perché tutti i giorni di questo quartiere resteranno gli stessi, scanditi da una maledizione senza tempo.
Avanti così: tra nuove tragedie e vecchi discorsi, rispolverando interpretazioni sociologiche che analizzano il disagio e riaccendono i riflettori sul centro del nulla, che è qui, all’isola G di via Labriola, Scampia, come in mille altre strade di una periferia fantasma. Avanti così, fino al prossimo dramma. Fino al prossimo lutto.
IL MATTINO 6 GENNAIO 2002