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Femminicidio, un sintomo della società consumistica che genera mostri con la faccia da bravi ragazzi

Femminicidio, un sintomo criminale della società consumistica
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Giulia, Stefania, Maria Rosaria, Ornella, Rosa, Giuseppina, Angela. Loro, come tante altre, donne vittime di un uomo. Non è possibile continuare ad aggiungere inesorabilmente i nomi all’elenco dei femminicidi nella statistica nazionale. Al netto delle analisi psichiche dei carnefici, quindi del singolo individuo, c’è bisogno di comprendere, e mettere sott’accusa, la società consumistica generatrice di mostri con la faccia da bravi ragazzi o da compagni e mariti premurosi.

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E’ inaccettabile mostrare stupore moralistico a fronte degli omicidi compiuti da insospettabili nevrotici fulminati nell’umore che li trasforma da amanti a carnefici nell’arco di poche ore, giorni e mesi: tutti alle prese con un momento di crisi esistenziale. E non basta nemmeno asserire che pure le donne si macchiano delle stesse atrocità perché, a questa stupida obiezione, basta far ricorso all’asettica e tardiva statistica.

LA SOCIETA’ DELLA PRESTAZIONE

Nella società della prestazione ci viene chiesto di mostrarci sempre pronti e reperibili, anche a mezzo social, financo nel nostro tempo libero sentiamo il bisogno di mostrarci compiuti agli occhi dei nostri followers instillando loro, coscientemente o incoscientemente, il senso di colpa del divertimento mancato.

In questo contesto sociale, in cui ogni aspetto quotidiano deve essere immortalato, si possono annidare le frustrazioni dell’individuo già costretto, fin da giovane dalle istituzioni familiari, a rincorre uno status teso ad affermare un meccanismo identitario: sono il lavoro che svolgo, valgo quanto spendo, attraggo in base al numero di donne che riesco a conquistare, sono un compagno-marito-papà per status sociale. Tutte queste, però, sono manifestazioni quantitative che non restituiscono il senso dell’esperienza che permea la vita degli individui.

SPENDO DUNQUE SONO SONO

Siamo di fronte alla negazione dell’enunciato cartesiano del cogito ergo sum a discapito del posticcio appaio dunque sono: così l’ego si misura nel possesso e nell’apparenza, di fatti, l’attività pensante diventa una perdita di tempo, ovvero occasioni mancanti di produzione o di consumo di beni e servizi. Sotto questa luce anche la relazione diviene merce sulla quale l’individuo può avanzare tutte le pretese fino a determinarne la fine: è proprio in questa logica distorta che riverbera il femminicidio.

IL POSSESSO NEL RAPPORTO AMOROSO

La fine del rapporto amoroso si tramuta in un fallimento individuale e stigma sociale per un nevrotico che ha basato la sua etica sul possesso esercitandolo, talvolta, anche attraverso il suo status economico teso a dimostrarsi degno agli occhi della donna. A quel punto l’altra non viene più riconosciuta come un soggetto, bensì, come l’oggetto del desiderio e, dunque, qualcosa di cui, secondo una logica criminale, ci si può disfare. Il male diventa banale, l’omicida non prova più empatia per l’altrui soggettività: l’umanità è depauperata.

UNA VITTIMA IRRICONOSCIBILE

In troppi casi il femminicidio viene aggravato da un’efferatezza inquietante del carnefice che, destinando la vittima al sacrificio, mostra anche l’atroce desiderio di trasfigurarne l’aspetto. Il disfacimento della soggettività sembra non bastare più: l’omicida vuole rendere irriconoscibile anche il corpo estromettendolo al momento dei funerali per farlo mostrare solo in una bara, dunque, in un oggetto. Le foto delle vittime alle esequie sono, così, utili a dare un volto al dolore di amici e parenti costretti a fare i conti con la tragedia.

E’ innegabile che, talvolta, i germogli della violenza, già emersi in alcuni momenti quotidiani, vengono ignorati. Quindi all’epilogo del femminicidio si manifestano, perlopiù, individui furiosi a caccia di vendetta istituzionale inducendo il legislatore ad inasprire le pene: così la rabbia diventa linfa per una classe politica dominante sempre tesa alla prossima tornata elettorale.

IL DELITTO D’ONORE

Non bisogna tralasciare le istituzioni democratiche che tollerano e, spesso, incitano i comportamenti consumistici, dunque di possesso, ma, qualora gli stessi degenerino, sono pronte a punire codici alla mano. Quindi premesso che l’uomo non è alieno dal regime in cui vive, forse, è necessario porre anche delle obiezioni allo stesso magari trovando spunto  nelle sue norme approvate.

Fino al 1981 è stato in vigore il delitto d’onore, retaggio del codice penale fascista e transitato nell’ordinamento democratico post-bellico, che prevedeva: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”. L’articolo 587 del codice consentiva una riduzione della pena per chi uccidesse la moglie, il marito, la figlia o la sorella al fine di difendere l’onor suo o della famiglia.

Sia chiaro che non viviamo nell’Italia repressiva fascista o nella sua evoluzione capitalistica repubblicana, bensì in un regime che non sente più il bisogno di vietare anzi. Dall’altro canto, però, tenendo presente la data dell’abolizione, dobbiamo ricordare che il nostro tempo è attraversato da individui nati in quella società, portatrice di valori patriarcali anche nella normativa, e da coloro che sono stati educati da istituzioni, famiglia e scuola, portatrici di predominanza. Quarant’anni ci separato da quell’abolizione e, purtroppo, quel senso di violenta rivalsa maschilista pervade ancora il nostro tempo manifestandosi nel possesso.

IL FEMMINCIDIO NELLA CRONACA

In troppi casi la fine di un rapporto sentimentale travalica la sfera personale arrivando così alla cronaca nera, cioè alla storia quotidiana che accade fuori dal Palazzo, nella quale il linguaggio giornalistico pone il focus su dettagli morbosi, facendo smarrire il senso generale del tragico. Inoltre al dolore dei familiari delle vittime viene sommato il pietismo del colpevole messo in atto dai suoi conoscenti, moltiplicando il dolore a vantaggio dell’istinto forcaiolo, troppo spesso, manifestato dai fruitori dei mass media.

La nostra società genera, occasionalmente, soggetti nevrotici, e se i professionisti dell’informazione non ne analizzano le ragioni culturali, premesse all’atto violento, a scapito della morbosa attenzione del singolo dettaglio sul femminicidio, si rischia di assecondare la morbosità dei fruitori spettacolizzando i drammi, passati e futuri, proliferanti diacronicamente nelle nostre cronache dando, paradossalmente, una sinistra luce di fascinazione dell’assassino: uno su tutti il caso del pluriomicida Renato Vallanzasca, noto alle cronache anche come il Bel Renè.

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