Pompei. Lo stesso giubbotto rosso di quando, la sera del 6 febbraio 2003, Antonio Rea si allontanò per andare al bar con gli amici. La vista di quella stoffa, ora indossata da uno scheletro, ha bloccato le ruspe che da due giorni scavavano un tratto di campagna lungo 80 metri tra Pompei e Boscoreale, lì dove era già stata rinvenuta una cassa con due fucili a canne mozze. Il cadavere trovato dalla polizia in un fondo vicino è quasi certamente di quel ragazzo di 25 anni svanito nel nulla dal quartiere «167» di Pompei. I resti si trovavano a circa un metro di profondità, in quello che potrebbe rivelarsi un vero e proprio cimitero della camorra. E del resto il dirigente del locale commissariato, Vincenzo Centoletti, era già certo dell’identità del cadavere da convocare immediatamente i parenti per il riconoscimento degli effetti personali. «Quella catenina con la Madonnina è di Antonio» hanno detto i familiari commossi e rassegnati, anche se non avevano mai smesso di cercarlo e che avevano persino segnalato il caso alla trasmissione televisiva «Chi l’ha visto?». Non avevano mai avuto più notizie: sapevano solo che «era terrorizzato» perché nel 1996 aveva assistito a un omicidio. E non si trattava di un delitto qualunque: Antonio non era ancora maggiorenne quando vide il suo migliore amico, Rosario, crivellato da una pioggia di proiettili. Era il nipote del camorrista Carmine Alfieri e da quel giorno maledetto nel quale si era trovato in auto con la vittima, non parlava d’altro. Lo raccontava a tutti, forse per esorcizzare la paura. In città lo conoscevano in molti anche perché aveva lavorato per qualche tempo nel bar di «Città Mercato», gestito proprio dalla famiglia Alfieri. Lo chiamavano «a capa e morte», il teschio, perché era magrissimo e alto meno di 160 centimetri. Quando sparì si pensò che qualcuno l’avesse eliminato per farlo tacere per sempre; ma sembrava strano che un testimone di un delitto venisse zittito a distanza di sette anni. Sta di fatto che Antonio Rea era sempre in giro e in molti sostengono di averlo visto spesso «trascinarsi ubriaco da un bar all’altro chiacchierando un po’ troppo…». Non era affiliato ad alcuna cosca; aveva solo precedenti penali di poco conto e per questo gli inquirenti non riescono ancora a spiegarsi il perché del suo omicidio. La salma, per ora attribuita ad Antonio Rea, è stata intanto trasferita dall’ospedale di Castellammare al secondo policlinico di Napoli dove verrà eseguito il test del dna.
AMALIA DE SIMONE – IL MATTINO 14 AGOSTO 2005