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Scampia, preso il nuovo boss: ha 18 anni
IL MATTINO 8 FEBBRAIO 2006


NAPOLI. Hanno un’età media di appena vent’anni, in alcuni casi non sono ancora maggiorenni, ma tutti hanno esperienza da vendere quanto a crimine e a traffici illeciti. Sono i nuovi «signori della droga», capaci di far arrivare in città fiumi di cocaina e di distillare ogni genere di cocktail: sono quelli della generazione Ottanta, che da un anno e mezzo assicura con fare manageriale stipendi da funzionario di banca alle famiglie di detenuti, che organizza turni, assolda vedette, impone il prezzo. Sono il «romanzo criminale» di Secondigliano e Scampia, ma anche di una larga fetta dell’hinterland napoletano, come emerge da una maxiretata scattata all’alba di ieri mattina, ad un anno e mezzo dai fumi della guerra tra dilauriani e scissionisti, che ha prodotto più di cinquanta morti e un durissimo contraccolpo all’immagine di Napoli nel mondo. È stato il procuratore Piero Grasso, ex capo dell’ufficio inquirente napoletano negli anni del dopo Falcone e Borsellino, oggi a capo della Direzione nazionale antimafia ad intervenire nella conferenza stampa tenuta dal capo dei pm napoletani Giovandomenico Lepore, dal leader del pool anticamorra Franco Roberti, dal sostituto Luigi Alberto Cannavale, da Gaetano Maruccia e Giuseppe Vicanolo (a capo del comando provinciale di carabinieri e guardia di finanza), dalla procuratrice minorile Luciana Izzo e dal magistrato Dna Lucio Di Pietro. Trentotto decreti di fermo, ventinove eseguiti, nove latitanti, nel blitz dei carabinieri di Castello di Cisterna guidato dal comandante Guido Saltalamacchia. Sono i numeri della maxiretata che ha condotto in cella Salvatore Di Lauro, figlio del famigerato Paolo, noto quest’ultimo come Ciruzzo ’o milionario: ha compiuto diciotto anni due giorni fa, ed è stato condotto ieri nel centro di prima accoglienza dei Colli Aminei. Dopo l’interrogatorio di garanzia, (il giovane è assistito dal penalista Vittorio Giaquinto), Salvatore andrà a Nisida, dove prenderà visione delle accuse che gli vengono mosse: non ancora diciassettenne – è quanto emerge dalle cinquecento e passa pagine del decreto di fermo -, avrebbe ricevuto l’eredità paterna nella gestione di una vera e propria macchina da soldi, capace all’occorrenza di trasformarsi in macchina da guerra. Il figlio del presunto padrino aveva dato un impianto manageriale al sistema delle piazze: gli spacciatori si alternavano con turni da azienda torinese e chi si presentava in ritardo pagava una multa sullo stipendio settimanale. In una delle tante intercettazioni ambientali, spunta infatti il ruolo di Daniele, addetto dall’organizzazione a sanzionare chi si presentava tardi sulla «piazza»: «Non mi costringete a multare i dipendenti, perché sono soldi vostri, a me importa che mi copriate il turno». Turni, rotazioni, multe ai dipendenti: una catena di montaggio che macina quattrini, come risulta anche dalle paghe assicurate ai semplici comprimari. «Fino a mille euro alla settimana per un pusher – spiegano gli inquirenti – cosa che rende difficile il contrasto al crimine, in mancanza di soluzioni alternative legali da proporre alle famiglie». Ed è la generazione Ottanta che ha fiutato il business, anche a giudicare dagli ingenti patrimoni sequestrati nel corso del blitz: ragazzini non ancora diciottenni, ma anche capifamiglia disoccupati, possedevano anni di grossa cilindrata, ciclomotori nuovi di zecca, telefonini ultimo modello e soldi cash. Un business che ha consentito di ricompattare gli equilibri nella stessa area nella quale è divampata un anno e mezzo fa la faida interna al clan Di Lauro, un affare che ha messo tutti d’accordo, che ha cicatrizzato in fretta le ferite prodotte dai morti incrociati. Emblematiche le parole intercettate in una conversazione tra sodali («Hanno fatto la guerra, ma a cosa è servita?»), mentre le indagini fanno emergere il ruolo delle donne, sagge titolari di un’economia domestica che ruotava attorno agli stupefacenti.


LEANDRO DEL GAUDIO






Scaltro e muto, l’irresistibile ascesa di un ras ragazzino




Ha ereditato dal padre la principale caratteristica di un boss: quella di non parlare mai, di non lasciare tracce. Diciotto anni da poco compiuti Salvatore Di Lauro, conosciuto come il compariello o il piccolino, il fratello più piccolo e in chissà quanti altri modi ancora, ha imparato a schivare la prima arma degli inquirenti, le microspie per intercettare ordini, voci e sfumature, anche nei posti più apparentemente sicuri. Salvatore il piccolino cresce in fretta, sulle orme di un padre che non ha mai visto e di cui ha pochissimi ricordi nitidi, mutuando dai fratelli maggiori i codici di un comportamento da boss, che toccherà ai magistrati valutare, codice penale alla mano. Salvatore ha solo quindici anni quando scoppia la faida di Scampia, che spacca in due il cartello creato in venticinque anni di carriera dal padre, il famigerato Ciruzzo ’o milionario, e resta dietro le quinte nel corso del feroce regolamento di conti che produce decine di morti. Una mannaia che si abbatte su capi vecchi e nuovi e che crea spazi vuoti, assieme alle centinaia di arresti prodotti dal pool anticamorra guidato da Felice Di Persia prima e di Franco Roberti poi, sotto il coordinamento del procuratore Giovandomenico Lepore. Una livella che rigenera e che consente di declinare il verbo del fratello maggiore, l’adorato Cosimino, quello che con l’obiettivo di rigenerare ha fatto scoppiare la guerra ai vertici delle piazze dello spaccio più importanti della Campania. E così Salvatore Di Lauro prende le redini delle casse più importanti, quelle di piazza Zanardelli, dove il padre funambolo aveva mosso i primi passi. Dà ordini, come si legge nelle intercettazioni che lo chiamano in causa, senza dare l’opportunità agli inquirenti di intercettare la sua voce: «Ho saputo che Totore il piccolo voleva far pestare Antonio Lanza Galeota ed Emanuele Lieto – commenta uno degli affiliati -, perché quei due creavano problemi all’organizzazione dello spaccio, specie per quanto riguarda i turni». Ma sono decine i passaggi in cui si parla del «piccolino», di «quello grassottello che ha i capelli lunghi fino alla nuca», del «compariello»: «Totore ha detto, mo’ li scasso, poi ha aggiunto: tarantelle non se ne fanno, se qualcuno fa lo scemo, picchialo». Poi una battuta su baby Di Lauro: Totore il compariello è quello che comanda tutto quanto». Sangue freddo, silenzioso, amante delle motociclette di grossa cilindrata. Ha abbandonato gli studi dopo la seconda media, nella stessa scuola in cui il fratello Nunzio, oggi probabile reggente del clan, aveva seminato il panico con una vera e propria spedizione punitiva tesa a colpire un professore troppo ligio al suo dovere. È sua, secondo gli inquirenti, la più ampia opera di diplomazia, che ha ricucito le lacerazioni successive alla faida, con una tregua risultata conveniente a tutti: una tregua assicurata anche da un massiccio impiego di uomini e mezzi, con ronde che vedono impegnate in una sola giornata fino a sessanta motociclette alla volta, come nel caso del sistema di controllo che, secondo la Procura, viene garantito alla zona dei sette palazzi da Pasquale Fabbricini, inchiodato ieri nel corso della retata congiunta di carabinieri (al seguito del maggiore Fabio Cagnazzo) e della Finanza (al seguito del colonnello Della Volpe). Un personaggio che ha bruciato le tappe, dunque, secondo il profilo tracciato nell’inchiesta condotta dal pm Luigi Alberto Cannavale, come spicca anche da una battuta riferita con orgoglio da uno dei pusher intercettati: «Salvatore sa che sono latitante e che mi stanno cercando in tutto il rione Berlingieri, mi ha ribattezzato Provenzano, che scappa da quaranta anni». Già ma chi è il Provenzano napoletano? Piero Grasso è chiaro e sereno: «Non esiste, perché la camorra è orizzontale, mentre la mafia è una piramide».

l.d.g.






In carcere i complici di Di Lauro: 18 arresti

Maione referente del clan per Melito



Melito. Capizona, sentinelle, spacciatori, corrieri, fiancheggiatori. I clan di Melito potevano contare su una complessa organizzazione criminale. E se la droga li aveva separati al tempo della faida di camorra, sempre la droga li aveva riavvicinati negli ultimi tempi. Di Lauro e scissionisti, le due fazioni che per mesi hanno insanguinato la periferia a nord di Napoli, si erano accordati per dividersi le piazze di spaccio. E anche a Melito, nel Comune dove era iniziata la faida di camorra, i due gruppi avevano optato per una tregua. È quanto emerge dai provvedimenti di fermo emessi dalla Direzione distrettuale antimafia ed eseguiti ieri all’alba dai carabinieri di Castello di Cisterna e Giugliano. Le manette sono scattate per 29 persone, 16 delle quali residenti a Melito. Si tratta di Fabio Albano, 25 anni; Salvatore Carizzi, 23; Maurizio Castellone, 22; Vincenzo Di Perna, 20; Angelo Esposito, 25; Pietro Esposito, 33; Ciro Ghezzi, 45; Maurizio Maione, 38; Carmine Mariniello, 21; Nicola Mele, 20; Mario Micera, 20; Edoardo Napoletano, 28; Gennaro Parisi, 29; Raffaele Ronga, 69; Antonio Stabile, 33; Claudio Stavola, 20. Due fratelli riconducibili al gruppo degli scissionisti, Francesco e Giovanni Venosa, di 20 e 27 anni, sono stati ammanettati a Giugliano. Perquisizioni e controlli sono stati effettuati anche ad Arzano e Villaricca. Tra i fermati spicca la figura di Maurizio Maione: per gli investigatori si tratterebbe del referente del clan Di Lauro nella zona di Melito. Un ruolo ricoperto per espressa volontà della cosca, così come emerge dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Pietro Esposito. Il pentito lo indica come il successore di Chiariello, detto ‘o boxer, attualmente passato nelle fila degli scissionisti. Ma il ruolo di primo piano di Maione emerge anche dalle intercettazioni telefoniche e ambientali disposte dalla Procura di Napoli: secondo i magistrati, il 38enne avrebbe mantenuto i contatti con i vertici della cosca e in particolare con Nunzio e Salvatore Di Lauro, il più piccolo dei figli di Ciruzzo o’ milionario. Appena 18enne, Salvatore Di Lauro era già considerato un criminale carismatico, pronto a ereditare la missione del padre. E giovanissimi sono anche la maggior parte dei fermati a Melito. Ragazzi appena sopra la maggiore età, ma già abili nel gestire piazze di spaccio e fiumi di denaro. Un segnale preoccupante, avvertono dalla Procura, e che aumenta il rischio di una nuova guerra di camorra a causa dell’inesperienza e della spregiudicatezza delle nuove «leve» del crimine. Sono loro – dicono gli investigatori – a gestire i rapporti con spacciatori e capizona, loro gli intermediari del business milionario della droga. Quell’affare che assicura, ad ogni singolo spacciatore o sentinella, almeno 150 euro al giorno. Una vera e propria impresa economica che a Melito coinvolge un intero quartiere. È il rione «219», il complesso di edilizia popolare costruito all’indomani del terremoto. Qui si è concentrata gran parte dell’operazione dei carabinieri. I militari hanno perquisito oltre 200 appartamenti tra via Caruso, via Vienna, via Lussemburgo, via Danubio e via Ticino. Nel blitz sono stati impegnati 250 uomini.



UGO FERRERO




IL MATTINO 9 FEBBRAIO 2006