Cinque anni. Un tempo che in teoria dovrebbe lenire, chiarire, portare luce.
Nel caso di Mario Paciolla, quel tempo ha lasciato solo vuoti, silenzi e ferite aperte. Il 15 luglio 2020 il suo corpo viene ritrovato senza vita nella sua casa in Colombia, a San Vicente del Caguán.
La scena parla di suicidio, ma i dettagli lo smentiscono: troppe anomalie, troppi buchi, troppe omissioni.
Quello che doveva essere un caso di cronaca si è trasformato in un buco nero istituzionale e diplomatico.
Eppure, Mario non era un agente segreto, né un politico o un soldato. Era un cooperante napoletano di 33 anni, laureato in Scienze Politiche, appassionato di letteratura, calcio, diritti umani.
Una piazza che non dimentica
Martedì pomeriggio a Napoli, la sua città natale, la voce di Mario è tornata a farsi sentire.
Il quinto anniversario della sua morte è stato segnato da un corteo e da una commemorazione intensa e partecipata.
Tra le figure intervenute, Nicola Ricci, segretario generale della CGIL Napoli e Campania, ha usato parole nette:
“L’archiviazione del caso Paciolla grida vendetta. La battaglia vera comincia ora, al fianco della famiglia, per continuare a chiedere che venga fatta luce”
Una piazza composta ma determinata. Presenti familiari, amici, giornalisti, attivisti, rappresentanti della società civile.
Dopo il corteo, la commemorazione è proseguita al Parco Ventaglieri, uno dei luoghi del cuore di Mario.
Un momento che non sapeva di addio, ma di resistenza collettiva.
Ma chi era davvero Mario Paciolla?
Non un burocrate in missione nè un cooperante in cerca di titoli per il curriculum.
Mario scelse la Colombia e la missione ONU perché ci credeva davvero.
Perché la pace, nei territori ancora insanguinati dal conflitto, era un obiettivo che sentiva suo.
Collaborava con la Missione di Verifica delle Nazioni Unite, incaricata di monitorare gli accordi tra governo colombiano e FARC.
Ma andava oltre le carte: raccoglieva denunce, ascoltava le comunità rurali, si esponeva.
La morte e le troppe ombre
Quel coinvolgimento lo aveva reso troppo vulnerabile.
Mario aveva espresso timori concreti per la sua incolumità.
Aveva confidato a genitori e amici di voler tornare in Italia, il biglietto era già pronto per il 16 luglio. Ma il giorno prima viene trovato morto.
Collo segnato, polsi tagliati, una corda.
Una scena troppo costruita per sembrare autentica. Il suo cellulare mai ritrovato, il computer sparito, tracce cancellate, distrutte.
Eppure, il 30 Giugno 2025, il giudice per le indagini preliminari ha archiviato il caso come suicidio.
Una decisione che ha lasciato sgomenta non solo la famiglia, ma una rete di giornalisti e attivisti che da anni analizzano documenti, raccolgono prove, costruiscono verità.
La dignità di una famiglia e il silenzio delle istituzioni
Anna Motta e Giuseppe Paciolla, i suoi genitori, non si sono mai fermati.
Hanno bussato a tutte le porte: ONU, Ministero degli Esteri, Presidenza della Repubblica.
“Non ci basta una comoda bugia”, ha dichiarato il padre.
“Non possiamo accettare che nostro figlio venga archiviato”
Non cercano vendette, ma verità e giustizia. Una giustizia che riguarda tutte e tutti noi.
Il caso Paciolla è diventato un simbolo.
Non solo per il rischio che corrono i cooperanti, ma per il fallimento delle istituzioni internazionali quando la verità è scomoda. L’ONU ha mantenuto un silenzio assordante, nessuna spiegazione pubblica, nessuna apertura ai familiari, nessuna assunzione di responsabilità. Anche l’Italia, troppo spesso, ha preferito la prudenza alla trasparenza.
Ma qualcosa martedì pomeriggio è sembrato muoversi davvero.
Oltre alla CGIL, anche numerosi esponenti della società civile hanno rilanciato un messaggio chiaro: Riaprire il caso. Fare pressione sul governo colombiano. Pretendere collaborazione dall’ONU.
In un mondo che dimentica troppo in fretta, la memoria è un atto politico.
Ricordare Mario non è solo un tributo, ma una forma di resistenza civile.
Perché Mario rappresenta tutti quelli che, in nome della verità, pagano il prezzo più alto, non può esserci giustizia dove il dolore viene trattato come una pratica da archiviare.
Al Parco Ventaglieri un teatro di memoria viva, non rituale
La commemorazione si è aperta con la proiezione dell’inchiesta di Fanpage, che ha introdotto gli interventi della madre e del padre di Mario, di Giuliano Granato (Potere al Popolo) e di Laura Marmorale (Mediterranea Saving Humans).
Cinque artisti – come gli anni dalla sua scomparsa – hanno cantato e parlato per lui, trasformando la memoria in azione collettiva.
Musica, parole, silenzi pieni, domande senza risposta e una rabbia forte e lucida.
Una battaglia che continua
Tutto ha avuto un senso. Ricordare che la battaglia per Mario Paciolla non si è mai fermata e che continua. Continua nelle piazze, nelle aule dei tribunali e nei cuori di chi rifiuta di restare in silenzio.