venerdì, Luglio 18, 2025
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Intervista ad Emanuele Cerullo: «Il mio racconto in versi del ventre di Scampia»

Emanuele Cerullo, classe ’93, vive a Scampia dalla nascita e ha cominciato a scrivere poesie dall’età di otto anni, “Il Ventre di Scampia” è la sua seconda pubblicazione. Il libro si allontana dalla concezione del canzoniere: la tematica centrale, cioè il rapporto alienante e diretto con la periferia, è il filo che collega tutte le poesie, quindi è un racconto in versi o più tecnicamente un “poemetto”. Ci sono due sezioni: “Oltre le vele” che raccoglie poesie più recenti, e “Il coraggio di essere libero” che in realtà include alcune poesie (scritte nel 2006) presenti nella raccolta eponima stampata dalla mia scuola media nel 2007.

Cosa t’ha spinto a uscire fuori dalle viscere del quartiere e a scrivere del ventre di Scampia?

La memoria. Ho abbandonato la vela celeste nel 2007 e nel corso degli anni ho rievocato gli incontri, le sensazioni, tutto ciò che ha rappresentato la mia esperienza.

Se dovessi spiegarlo, cos’è o com’è questo ventre di Scampia?

Il ventre di Scampia è il grido interiore che si fa sussurro perché soffocato dalla precarietà, dall’illusione, dalle opportunità negate, dalle occasioni ricavate o inventate. Il ventre di Scampia è la periferia dell’anima, quindi il suo non-luogo che contiene tutti i luoghi contenuti nei piccoli spazi riempiti col desiderio di vita e di vitalità della miseria, anch’essa periferica perché ciò che è centrale, oggi, è la ricchezza materiale. Il ventre di Scampia è la Vela e le altre vele, ma anche il Corviale e Torbellamonaca, Librino, Quarto Oggiaro. È questo e tanto altro.

La Serao scriveva: “Voi non lo conoscete in ventre di Napoli” quasi ad urlare in faccia alla nativa Italia le condizioni del meridione. Il tuo Ventre di Scampia conserva in se quell’urlo? E’ una richiesta d’intervento da parte delle istituzioni?

Sì, anche perché la cura non spetta a chi scrive; noi autori possiamo solo cercare di rendere tutto ciò comprensibile, e la mia scrittura non ha grandi pretese ne’ contiene ricette per il cambiamento, ma le stesse istituzioni hanno rovinato il mio quartiere (e non solo) negli anni Settanta, le stesse istituzioni hanno costretto l’architetto delle vele a ridurre le dimensioni degli edifici e a rimuovere dal progetto i tanti centri di aggregazione previsti. E dalle istituzioni mi aspetto la demolizione delle vele. Ma attenzione: demolire non vuol dire assecondare. Se le gru si muovessero allora il discorso sarebbe diverso. Purtroppo questa staticità non ci aiuta. Occorrono azioni concrete. Io sono testimone del riscatto, i turisti del riscatto che speculano sul mio quartiere, con le loro iniziative, gli eventi, i finanziamenti, i quindici minuti di celebrità ecc. rappresentano l’Italia arrivista e non attivista, pappona e piagnucolona (intanto sazia), un’Italia che ancora una volta scappa dagli italiani e abbandona spietatamente il popolo affamato di giustizia.

La tua poesia, fin da “Il coraggio di essere libero” ha il sapore del cemento ma è da quel cemento che esce fuori prepotente. Che rapporto ha la tua poetica con l’ambiente urbano che ti circonda?

Strettissimo. Un rapporto così stretto che se non avessi “respirato” quotidianamente tutto quel cemento, molto probabilmente non avrei scritto “Il ventre di Scampia”. Ho intenzione di descrivere ancora questo rapporto tra l’uomo e il luogo nel quale è immerso, magari spostandomi dalla periferia alla città. Perché, in fondo, anche la città ha il suo corpo, il suo linguaggio. Voglio sentire la città così come sto sentendo la periferia (che è comunque una piccola ma intensa parte della città: il suo ventre, appunto), ma se dovessi ricavarne altra alienazione non mi stupirei, anzi.

Credi che vivere nelle vele abbia contribuito ad aumentare la tua sensibilità verso l’esterno?

Assolutamente sì. Vedevo troppa sofferenza chiusa in quella vela, ci si abitua al buio fin da piccoli. La povertà, i lamenti, la ricerca dell’eccesso che si confonde con la ricerca dell’essenza, i porticati che diventano un campo da calcio, il figlio dello spacciatore che gioca a calcio col figlio dell’operaio, e poi, qualche piano più su, il campo da basket in uno spazio piccolissimo e un secchio che diventa canestro sospeso tra due ascensori usati come porte. Insomma, ho osservato molto, ho vissuto i primi quattordici anni della mia vita là dentro, mendicavo un po’ di luce senza accorgermene.

Un vero e proprio ossimoro: come ci si sente ad essere poeti nell’epoca dei social network?

Un ossimoro preoccupante. Le liriche che condivido adesso o tra dieci minuti, tra un’ora saranno già morte, tuttalpiù condivise da altre persone (quindi la morte del pensiero è posticipata di un’altra ora) e, nella migliore delle ipotesi, vecchie. Nella babelica home continuamente aggiornata, la poesia (inserita in un’immagine, in un video condiviso o in un post) si impone in tutta la sua essenza postuma. Non solo la poesia, ma anche le notizie, le riflessioni personali sulla partita di calcio, sull’ennesimo video virale (che tra un mese non esisterà più) o sull’ennesima lagna (altrettanto occasionale, ma fa “alternative”) contro chi condivide quel video virale. Tutto si rivela postumo. La disinformazione no, quella va avanti sempre. Perché l’ignoranza è l’epidemia più contagiosa che ci sia.