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mercoledì, Aprile 24, 2024
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LA SICUREZZA DIMENTICATA

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Negli alberghi a cinque stelle del lungomare di Napoli agli ospiti viene distribuita una brochure colorata con i loghi del Comune, della Regione e della Provincia. All’interno non c’è la mappa della città o l’elenco dei monumenti, come sarebbe facile aspettarsi, ma un delicato e terribile avvertimento: “prima di andare in giro lasciate gioielli, orologi, preziosi e soldi in albergo”.
Come dire, benvenuti a Napoli, città dove la violenza si colora del giallo accecante del sole sugli specchi nel Centro direzionale, del grigio ombra dei palazzi nei Quartieri spagnoli, del bianco spettrale del metallo negli enormi viali di Scampia, dell’azzurro del mare a via Caracciolo; dove, insomma, lo schiaffo, a metà tra il bonario e il violento, della microcriminalità si allarga quotidianamente sul viso di chiunque passi ovunque.

L’associazione AltraNapoli, nata dall’opera di cento intellettuali guidati dal figlio di Emilio Albanese, un ingegnere 70enne ucciso con un colpo in testa da un balordo che voleva rubargli poche centinaia di euro, ha coniato uno slogan che diffonde su pagine di giornale e manifesti: “il prossimo sindaco di Napoli deve sedere qui”, e al centro dell’immagine c’è una poltrona piazzata nei mille angoli malati di Napoli. Tra cumuli di spazzatura, tra montagne di siringhe, tra code nervose di auto, tra vicoli stretti di umido e degrado, tra le carte sporche di Pino Daniele.
“E’ una provocazione – spiegano i promotori dell’associazione – dalla quale, in verità, non ci aspettiamo molto. Ci sono le elezioni e volevamo ricordare alle migliaia di persone che si candidano a governarci che il loro posto, quello che tanto desiderano, è nei problemi, non nell’ovatta”.
E’ una curiosa e paradossale campagna elettorale quella che sta vivendo Napoli in questi giorni. Deve essere eletto il nuovo sindaco della città. Si sfidano un poliziotto, col centrodestra, e l’ex ministro degli Interni, col centrosinistra. Il tema della sicurezza, in una città così e con due candidati così, dovrebbe essere il “cuore” del dibattito. Invece no. Si parla d’altro. Sulla sicurezza c’è una sorta di rimozione generale. Come quando hai un lutto in famiglia e nessuno nomina il defunto per paura che si sciolga il grumo di malinconia.

“Si ha quasi pudore a fare proposte sul tema sicurezza – dice Agostino Dall’Olio, sociologo -; sembra che nessuno si senta davvero capace di affrontare l’argomento e le sue mille sfaccettature, le sue trappole, le sue scatole cinesi. Nessuno se la sente di garantire, su un tema così, un impegno serio”. Naturalmente, per la forma, sia Franco Malvano, ex capo della Squadra mobile e poi questore di Napoli, candidato della Casa delle Libertà, sia Rosa Russo Jervolino, candidata del centrosinistra e sindaco uscente, hanno inserito nel loro programma qualche spunto sul tema della sicurezza. Ma la timidezza impera. Del resto cosa dire a una città violenta e tesa, dove l’illegalità è una macchia d’olio, dove non ci sono più né i buoni né i cattivi, dove tutto si mescola e tutto si tiene, sul tema della sicurezza?

Si parla di potenziare gli organici delle forze dell’ordine, si parla di coordinamento, si parla di politiche per il sociale, si parla di lavoro e di minori. Si parla.

Un progetto vero sulla sicurezza, in grado di aprire una speranza, non sembra averlo nemmeno Marco Rossi Doria, figlio del meridionalista Manlio, candidato a sindaco di una lista civica di ispirazione di sinistra, “decidiamo insieme”. Rossi Doria di professione fa il “maestro di strada”. E’ un insegnante elementare che, grazie a un progetto chiamato Chance, finanziato con la Legge 285, ha abbandonato, con alcuni suoi colleghi, le aule e si è catapultato tra i vicoli dei Quartieri spagnoli. Va a cercare i minori a rischio laddove c’è il rischio, nelle sale giochi, nei bar, sui marciapiedi. Va a parlare con loro, provando a sottrarli al destino (altro che chance, il progetto dovrebbe chiamarsi miracolo). Rossi Doria conosce la malattia di Napoli, la guarda negli occhi. E nemmeno lui ha avuto il coraggio di costruire e proporre un’idea strategica sulla sicurezza.

In questa curiosa campagna elettorale, quindi, si parla di altro. Cioè sempre delle solite cose. Innanzitutto la compravendita di voti. Pare che nei Quartieri spagnoli, un voto valga cinquanta euro. Si dice che basta fotografare la scheda votata col cellulare, portare il telefonino al candidato, fargli vedere la foto della scheda con la preferenza ed arriva il biglietto da 50 euro. Ci sarebbe un sistema capillare, vicolo per vicolo, per far passare la parola e per sussurrare il nome del candidato ai “guaglioni” che girano sui motorini.

I 50 euro, sia ai Quartieri che nella 167, sono per un voto alla Municipalità. Curiosamente, per il Consiglio comunale, il prezzo scende a 30 euro. Forse perché la competizione per il Consiglio, da qui, da questi quartieri che sembrano paesi, appare addirittura lontana. Invece il candidato per il Municipio lo incontri sotto casa, è il vicino, il parente, il cugino, l’amico. Che ha messo il vestito a festa, si è fatto la foto in posa, ha stampato il manifesto e lo fa attaccare dappertutto: sui bidoni della spazzatura, sulle pensiline delle fermate, perfino sulle auto abbandonate nei vicoli.
Un seggio nell’assemblea della Municipalità vale una indennità mensile di 1500 euro. Praticamente un posto di lavoro a tempo determinato. Garantito. Sicuro. Senza fare nulla. L’ideale. E dunque tutti in corsa. Ci sono le liste di partiti, e ci sono le imitazioni. Decine e decine di liste. E tutti dentro a cercare voti, a girare per case, per palazzi, per famiglie, per amici.
Naturalmente – come evitarlo? – puntuale scoppia la polemica, a pochi giorni dal voto, sulle infiltrazioni della camorra. Tutti denunciano, scappa qualche nome, ma in fondo nessuno può dare lezioni ad altri. La Procura di Napoli ha intercettato, nel corso di una indagine, due esponenti del clan Misso che dicevano: “adesso che al Comune saliamo noi, ti faccio vedere…”. Noi chi?
La Digos di Napoli ha fatto un approfondito screening dei candidati al Consiglio comunale: ben venti risultato avere precedenti penali e riferimenti specifici a collegamenti con attività di camorra. Sono distribuiti in tutte le liste, tranne Ds e Rifondazione (che però hanno candidati a rischio nei comuni della provincia). Stessa analisi per le candidature delle Municipalità: qui, però, i candidati con pedigree salgono a cento mentre addirittura 2500 dei 5200 candidati risultano essere stati, nella loro vita, denunciati almeno una volta.
Il sindaco Jervolino e il governatore Bassolino sono stati i primi a lanciare l’allarme. E un Pm della Dda di Napoli ha deciso di ascoltarli per capire se ci sono gli elementi per avviare una indagine mirata. Il sindaco uscente ha detto che “non vede l’ora di andare in Procura” ma poi ha aggiunto che “non avrà cose specifiche da raccontare”.

Insomma, voci di popolo.

Le voci, cioè, di una moltitudine che è da poco scesa sotto il milione. Sono poco più di 900mila i residenti a Napoli; in molti, spinti dal mercato immobiliare impazzito, si sono dirottati verso i comuni vicini. Non più quelli a sud (Portici, San Giorgio, Ercolano) ormai saturi, ma quelli a nord (Marano, Giugliano). Poco meno di un milione di abitanti che si allunga soprattutto verso i quartieroni della collina (Vomero, Camaldoli, Fuorigrotta) e verso le periferie immense (Scampia, Piscinola, Chiaiano, Pianura). Il popolo del centro storico, ormai, non esiste quasi più. Qualche migliaio di famiglia a Forcella e nei vicoli dei Tribunali; lo stesso ai Quartieri spagnoli, alla Stella, a Materdei. Poi tutti verso il Vomero, da un lato, verso Capodimonte-Miano-Chiaiano dall’altro. Ponticelli, ormai, vecchio quartiere operaio a ridosso della zona industriale, è centro storico tanto si è allargata l’area metropolitana della vecchia Napoli.

Quartiere per quartiere, questa curiosa campagna elettorale scorre via con facce e riti che si ripetono: le infiltrazioni della camorra, la compravendita di voti. Sembra essere tornati ai tempi del comandante Achille Lauro, il sindaco monarchico che – si racconta – durante i comizi dispensava pane, pasta, viveri per avere voti. E al popolo distribuiva migliaia di scarpe sinistre e, dopo il voto, se veniva eletto, distribuiva le scarpe destre.

Mercanteggiamenti, che a Napoli sono antichi come la sua storia.
“ Qui si sono dimenticate le regole del gioco politico – dice Giuseppe Reale, dell’associazione Oltre il Chiostro, che ha organizzato un convegno su “quale Napoli vogliamo”, raro appuntamento di riflessione in una campagna elettorale modulata su appartenenze e polemiche -; la questione fondamentale non è trovare un candidato da votare in cambio di qualcosa. Ma restituire dignità civile al voto”. Gennaro Matino, sacerdote, teologo e parroco a Napoli, rincara la dose: “il bene collettivo, a Napoli, non è più un valore. E pare che non esista nemmeno la voglia di cercarlo”. “La metafora di Napoli carta sporca – spiega il giornalista Aurelio Musi –inventata da Pino Daniele, trent’anni fa ci fece sprofondare in quei bassifondi materiali e morali da cui volevamo assolutamente uscire. Trent’anni dopo quella metafora conserva la sua capacità di rappresentare la verità. Oggi sporco è l’attributo più vero per descrivere Napoli; è una condizione del suo vissuto. Quel che è peggio è che questa definizione non indigna più di tanto. La nostra capacità di percepire il grado tossico del clima in cui viviamo si è di molto abbassata”.

Si è abbassata al punto tale che martedì, dopo il voto, comunque vada sarà di nuovo la stessa Napoli.



dal settimanale Left-Avvenimenti

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