NAPOLI. Due punizioni agghiaccianti per ottenere notizie su camorristi in fuga. Una ragazza di ventidue anni dalla fedina penale immacolata, sequestrata, ”interrogata”, torturata, uccisa e data alle fiamme. Un uomo di sessant’anni massacrato e ridotto in fin di vita per estorcergli notizie sul nascondiglio del figliastro. Sono le ultime azioni di una camorra che diventa giorno dopo giorno più spietata, barbara, crudele. Il corpo orribilmente sfigurato dal fuoco rinvenuto l’altra notte alla periferia di Secondigliano era, dunque, quello di una ragazza incensurata. Si chiamava Mina Verde, abitava a San Pietro a Patierno, forse l’hanno torturata prima di spararle alla nuca e darle fuoco. La faida di Secondigliano fa scorrere, così, altro sangue innocente. Il sangue di una ragazza che faceva volontariato, amava la vita e che ha pagato per un’«amicizia sbagliata». E il sangue di un anziano, ora in coma nella rianimazione del Nuovo Pellegrini, massacrato da sicari che tentavano di sapere dove si nasconde il suo figliastro, del gruppo scissionista di Secondigliano, ovvero la banda che ha tradito il boss. Le ultime vendette trasversali della guerra dei Di Lauro fanno inorridire la società civile, ci riportano indietro di decenni, alla ferocia della camorra di Cutolo e dei suoi avversari, alla mafia siciliana, quella che non esitò ad uccidere il figlioletto di dieci anni di un boss. Mina, sostengono gli investigatori, è stata assassinata perchè legata a Vincenzo, esponente degli scissionisti il gruppo malavitoso che si oppone a quello capeggiato da Ciruzzo ’o milionario, primula rossa della malavita organizzata da circa due anni. Da lei i sequestratori volevano informazioni sul nascondiglio del suo amico, sparito da un po’ dalla circolazione. Per questo i killer potrebbero addirittura averla torturata prima di finirla. È la pista principale seguita dagli investigatori per il sesto morto ammazzato nelle ultime 72 ore, una guerra tra diverse fazioni, che prima facevano parte di un unico clan che controllava lo spaccio della droga. In questa faida che non vede fine rientra, dunque, l’uccisione di Gelsomina Verde il cui corpo ridotto a un tizzone, è stato rinvenuto dopo la mezzanotte di domenica nella macchina di suo padre Michele (pure incensurato), una Fiat Seicento, in una stradina di campagna alla periferia di Secondigliano. Lei era seduta accanto al lato guida, il sediolino del conducente era abbassato. Evidentemente i killer avevano preso posto uno al volante, l’altro (o gli altri due) sul sedile posteriore. Ma perchè i sicari hanno bruciato auto e cadavere? Un ulteriore oltraggio al corpo senza vita di Mina? Un segnale per i nemici? O, più semplicemente, il fuoco serviva a cancellare le proprie tracce? Gli inquirenti (indagano i carabinieri del Comando provinciale) lavorano senza sosta per ricostruire lo scenario in cui è avvenuto l’omicidio. Su una cosa i militari non hanno dubbi. L’assassinio di Mina – sequestrata dopo che aveva lasciato un’amica con la quale aveva trascorso la prima parte della serata domenicale – è collegato a quel filo rosso che tiene uniti gli ultimi delitti messi a segno nel quadrilatero Secondigliano, Scampia, Mugnano, Melito. Sull’altro sequestro di persona che vede nella rete degli uomini del clan Di Lauro un sessantenne, gli investigatori mantengono il massimo riserbo. Anzi, i carabinieri dicono di non averne addirittura notizia. Sarebbe ricoverato nell’ospedale di via Doganella, in coma nella rianimazione dopo essere stato picchiato e probabilmente torturato da esponenti della cosca di Secondigliano che volevano costringerlo a riferire loro dove si trovasse il suo figliastro, ritenuto elemento di spicco dei cosiddetti «scissionisti». Il fatto, sul quale vi è stretto riserbo da parte degli investigatori, sarebbe avvenuto alcuni giorni fa sempre a Secondigliano teatro della faida. Il figliastro della vittima, come Vincenzo, avrebbe fatto parte di quel gruppo di ex appartenenti al clan Di Lauro fuggiti in Spagna con una grossa somma di denaro provento delle attività illecite. Due «punizioni esemplari», due messaggi per il nemico. Colpire persone innocenti avrebbe un preciso significato: lanciare ai reggenti segnali precisi, vere e proprie minacce di sterminio delle famiglie, anche di quei parenti con i quali non ci sono vincoli strettissimi.
MARISA LA PENNA
Quel legame del passato
A Natale il pranzo dei poveri si farà senza di lei. Mina non c’è più. La ragazza dai capelli rossi che faceva volontariato è morta. Uccisa a colpi di pistola, il corpo abbandonato nell’auto avvolta dalle fiamme. Come un boss. Perché? Come può accadere che una ventiduenne altruista, appassionata di musica neomelodica, per gli amici «sempre solare», inizi le giornate aiutando il prossimo e finisca l’esistenza per mano di un clan? Quella che si sta combattendo a Napoli è una guerra vera, ecco la risposta. Una frequentazione sbagliata, non importa se stabile o semplicemente occasionale, può essere pagata con la vita. Gli eventi delle ultime ore, le vendette trasversali e gli agguati nel mucchio non fanno che ribadirlo ancora una volta. Un clima che mette paura e spinge i ragazzi che in via dei Reggiolari, a San Pietro a Patierno, piangono Mina per la sua sorte orribile a non rivelare neppure il nome dell’associazione di volontariato presso la quale la giovane prestava la sua attività. «Ti prego, lasciamo stare, meglio di no». Ma è da qui, da queste palazzine di edilizia popolare, che bisogna partire per ricostruire il mondo di Mina e provare a raccontare la storia di una ragazza morta in modo atroce, ennesima vittima di uno scontro che si sta consumando sotto gli occhi dell’Italia intera. È un piccolo rione, alle spalle del corso principale di San Pietro a Patierno. Le case sono basse, di colore giallo. Nell’androne del palazzo un’edicola votiva dedicata alla Madonna è piena di fiori. L’appartamento è piccolo, la porta socchiusa. Anna, la madre di Gelsomina, si dispera. Michele, il padre, esce sorretto da un familiare. Si lascia andare a uno sfogo dettato dal dolore del momento: «Ho una sola dichiarazione da fare: se non lo prende la polizia, lo prendo io con le mie mani». In strada, gli amici di Mina si asciugano le lacrime, confabulano. Raccontano la storia di una ragazza «che non si tirava mai indietro quando c’era da aiutare qualcuno. Bella, simpatica, coinvolgente». Il volontariato, ecco. L’associazione si occupa di assistere i più deboli, gli anziani, i diseredati. «Senza turni fissi – spiegano gli amici di Mina – hanno i nostri numeri, quando c’è bisogno di far compagnia a un’anziana, ci chiamano. Chi è libero, va. E Mina non si faceva pregare». Organizzano spettacoli di animazione per bambini malati ricoverati in ospedale, Santobono e Pausillipon in particolare, lavorano a iniziative per i senzatetto. «Stavamo preparando il pranzo dei poveri», spiegano. Si farà a dicembre, il mese in cui era nata Gelsomina, avrebbe compiuto gli anni il 5, una domenica. Sembra quasi di vederla, ora: i capelli rossi, il fisico slanciato, una sigaretta ogni tanto. Il diploma di ragioniera, le canzoni di Gigi D’Alessio ad accompagnarle la vita. «Correva sempre – ricorda una vicina di casa – quando la vedevo per le scale glielo chiedevo: dove vai sempre di corsa, Mina?». «Mi hanno telefonato per dirmi quello che era successo – dice uno dei giovani – è stato un fulmine a ciel sereno, te lo assicuro. Mai e poi mai avrei potuto immaginare una cosa del genere». Non se lo aspettava nessuno, in effetti. E nessuno è al corrente di una relazione pericolosa che potrebbe aver segnato la sorte di Gelsomina. È la pista centrale delle indagini ma in via dei Reggiolari tutti fanno spallucce quando si tocca questo argomento. «Ci vedevamo in associazione, ma per il resto ognuno faceva la sua vita», assicurano i ragazzi. Il presidente della circoscrizione San Pietro a Patierno, Vincenzo Solombrino, sottolinea: «Certo che la conosco. È una ragazza del mio quartiere, la ricordo bene soprattutto da piccola, nell’età dell’adolescenza. Una bella ragazza, tranquilla. Da tre-quattro anni l’avevo persa di vista, non si dire nulla riguardo a eventuali relazioni. Conosco la famiglia, sono persone oneste. Il padre lavorava con un fratello come commerciante di scarpe nel centro di Napoli. È gente umile, che deve fronteggiare ogni giorno le mille difficoltà del quotidiano. Ma non hanno mai fatto niente di illecito o illegale, su questo posso mettere la mano sul fuoco». Mina divideva la passione per il volontariato con il fratello. «Un ragazzo a posto anche lui», conferma Solombrino. Dalla porta socchiusa arriva il lamento di una madre: «Mina dove sei, Mina perché non telefoni?». Gli amici dell’associazione non sanno dire se Gelsomina aveva un sogno nel cassetto. Ma un desiderio loro ce l’hanno: «Vorremmo lavoro, tranquillità, sicurezza. Vorremmo smettere di avere paura, paura anche solo di uscire a prendere un caffé».
DARIO DEL PORTO
L’Osservatore: Napoli ritrovi la pace e il suo volto umano
In Campania stiamo assistendo ad una «spietata scia di sangue». È il commento dell’Osservatore Romano alle «altre quattro barbare uccisioni» di domenica. Secondo il quotidiano vaticano, «si è di fronte a una faida tra clan senza tregua. «Mentre – scrive L’Osservatore – da più parti si invocano interventi speciali contro la spirale di violenza, i parroci delle zone più insanguinate invitano a non rassegnarsi perché la città ritrovi la pace e riacquisti il suo volto umano»
Esplode anche la piccola criminalità
La strada d’accesso al Terzo Mondo, case rosse ai bordi di Napoli, supermercato dello spaccio, si chiama «I misteri di Parigi». Anche il nome di una via, da queste parti dove la situazione peggiora letteralmente di giorno in giorno, può diventare uno sberleffo. I misteri di Napoli, invece, sono quei mitra spianati su via Limitone e dintorni, quell’elicottero che setaccia le nuvole sopra uno spicchio di città fra Secondigliano, Scampia, la 167, il Terzo Mondo e Melito, area con il carcere incastonato dentro, come un buco nero che succhia ed incenerisce esistenze: qui, sotto l’elicottero, nonostante la crescente militarizzazione, si ammazza la gente all’ombra di caserme e commissariati, si spostano i cadaveri qua e là in barba ai posti di blocco. Li ammazzano da una parte e li bruciano dall’altra. Mistero. Da un paio di mesi in qua gli scippatori sono assai più cattivi, come se l’impazzimento fosse generale, non solo guerra ad alti livelli, ed hai la sensazione che non li fermeresti con i carri armati. Nessuno può stare in pace. Don Italo Mastrolonardo, da sei anni parroco a santa Maria delle Grazie di Melito, registra un imbarbarimento «peggiore giorno per giorno». E tanti di quelli che sentirai in un breve viaggio fra i misteri di Parigi, useranno quest’espressione terribile: «di giorno in giorno…». Più rapine, più cavalli di ritorno, dice il sacerdote. E, al solito, solo la Chiesa rimasta per strada con una faccia credibile per tutti. Le quattro messe domenicali di don Italo sono tutte affollate, settecento bambini si preparano alla Comunione. Sono fedeli di tutti i tipi, di tutte le estrazioni sociali, di tutti i percorsi umani, inclusi quelli che passano per il buco nero del carcere. Grazie al Comune e ad una cooperativa, don Italo è riuscito a mettere su tre oratori e va cercando i piccoli e gli innocenti perchè è da loro che occorre ricominciare. Con l’aiuto di un regista, ed ex attore da fotoromanzo, Francesco Maglioccola, ha messo sessanta bambini davanti ad una macchina da presa. E quei piccoli, bambini ”normali” e bambini ”a rischio” (già traditi dalla banalità delle etichette) hanno recitato la vita del patrono di Melito, Santo Stefano martire. Il loro film è arrivato al festival di Giffoni (per chi volesse vederlo proiezione il 9 dicembre a Melito cinema Barone, ore 19,30). E l’invettiva di santo Stefano («Gente testarda! Voi resistete allo Spirito Santo…») che esce di bocca ad un tredicenne, Carlo, sembra andare in cerca proprio dei testardi e dei colpevoli. Un’altra parola tornerà continuamente in questo breve viaggio: «lavoro». La signora Enza, sul viale principale, esercita il mestiere degli ex contrabbandieri: vende le sigarette fuori orario, all’ora di pranzo e di notte, fino alle due del mattino. Sigarette regolari, ma trenta centesimi più care per via del servizio in più. «Magari ci fosse ancora il contrabbando – dice afflitta – non ci sarebbe tutta questa droga». Poi ci ripensa. «Magari ci fosse il lavoro. Sei figli ho, nove nipoti, un figlio che mi ha fatto tribolare tanto ed ora, grazie a Gesù, si è rimesso in piedi. Hanno tutti bisogno di una casa e di portare avanti i figli. Io sto qui, in strada, e non li posso aiutare». In mezzo alla strada la signora Enza è stata aggredita, rapinata, picchiata. «E che denunciavo a fare?» dice con un sorriso. Vorrebbe una pescheria, grembiule bianco, stivaloni di gomma e normalità; non ha che la rivendita fuori orario di sigarette e tanti figli che le navigano per un mare senza porti. «La più piccola però studia – dice fiera – vorrebbe entrare in polizia. Ma non può, il papà è stato in carcere. Si arruolerà nell’esercito..». Costumi globalizzati, anche a Melito, provincia violenta di Napoli, si pensa all’esercito per sbarcare il lunario. I ragazzi americani ci sono finiti in Iraq, a farsi avvolgere nelle bandiere per i cadaveri degli eroi, ed erano solo diciottenni senza arte, parte, ed assistenza sanitaria. Misteri di Napoli. A Via Limitone tre giovani mamme passeggiano fra i posti di blocco ridendo:«Quanti carabinieri oggi. Siamo a Posillipo?» chiede la più sfrontata con un bel sorriso. Poi allarga il braccio sullo scenario alle spalle: «Ecco il regno della droga. Quanto pensate che resteranno qui, con il mitra?». Hanno mandato carabinieri da Salerno, altri ne arriveranno da altre parti d’Italia. Ma una simile pressione quanto reggerà? «Noi, comunque, da casa non scendiamo più. Ora andiamo a prendere i figli. Poi a casa e chiusi dentro. Proprio come a Posillipo, non è vero?».
CHIARA GRAZIANI
Pulizia etnica, ultimo orrore della faida
Li stanno ammazzando almeno una volta nella vita abbia incrociato il cammino dei protagonisti dello scontro. Una strategia che negli ultimi giorni sta toccando l’apice ma che, a ben vedere, fa parte del codice genetico della malavita organizzata di Secondigliano. Sette anni fa, dopo l’omicidio del giovane Vincenzo Esposito, soprannominato «il principino», si aprì una stagione di omicidi a tappeto che per molti versi ricorda quella attuale: per il territorio dove venivano commessi, per il bilancio di sangue, per la determinazione con la quale quei delitti venivano commessi, per quei morti ammazzati spesso tirati per i capelli dentro una vicenda alla quale erano sostanzialmente estranei. Addirittura per le strade di Secondigliano girava voce, in quei giorni, di un manifesto affisso in strada con su riportati i nomi delle persone in procinto di essere assassinate. Sembra passato un secolo, è storia di fine anni ’90. Per quella faida, va detto per inciso, non ci sono imputati. Ma l’episodio rappresenta, nella ricostruzione operata dal pm Giovanni Corona durante le indagini sul clan ritenuto capeggiato da Paolo Di Lauro, come il più recente momento di crisi della criminalità organizzata della zona. Prima ancora, nel 1992, lo scontro era culminato nella strage del rione Monterosa, dove cinque persone rimasero uccise e i sicari, per coprirsi le spalle durante la fuga, lanciarono alle proprie spalle anche due bombe a mano. Oggi, gli investigatori ne sono certi, si uccide per la droga, per conquistare il controllo di un affare che garantisce incassi da milioni di euro. La morte venduta in dosi ai disperati di Scampia frutta moltissimo. La vita invece vale pochi spiccioli. Il mercato degli stupefacenti, racconta l’inchiesta sul clan Di Lauro, garantisce guadagni fino a 500mila euro al giorno. Per acquistare una mitraglietta ne bastano appena 700: tanto sostiene di aver pagato il diciannovenne che, nei giorni scorsi, si è presentato spontaneamente in procura affermando di essere il responsabile della sparatoria all’indirizzo di quattro carabinieri in borghese avvenuta in via Limitone d’Arzano. «L’ho comprata da uno zingaro, non saprei riconoscerlo», ha spiegato agli inquirenti che prendevano nota stupiti. Una mitraglietta, attenzione. Non una pistola, quella a questo punto dovrebbe costare qualcosa in meno. Uccidere dunque diventa facile. Soprattutto quando c’è la cocaina a sciogliere le ultime esitazioni. Naturalmente si uccide per soldi. Il pentito Gaetano Conte, che due anni or sono ha fornito al pm Corona numerosi particolari confluiti nel processo tuttora in corso a carico di «Ciruzzo ’o milionario», ha spiegato al magistrato che tutti gli affiliati percepiscono uno stipendio «a seconda del ruolo che viene loro assegnato». I meglio retribuiti, manco a dirlo, sono i killer, seguiti dagli estorsori e dagli spacciatori. Nei casi più impegnativi, ha aggiunto il collaboratore della giustizia, oltre alla paga un omicidio può essere ricompensato anche con un regalo. Dichiarazioni di due anni fa, dunque in parte probabilmente superate. In tempi di guerra qualcosa è cambiato di sicuro, non solo le alleanze. Si sta ammazzando a un ritmo impressionante, con modalità talvolta anomale ma sempre con ferocia. Forse i killer si fanno pagare ancora meno.
DARIO DEL PORTO
«Saltati i codici non è camorra»
Ottaviano. «Questa non è camorra, la camorra rispetta le regole e non ammazza le donne». Immacolata Iacone, la moglie dell’ex capo della Nco Raffaele Cutolo, non nasconde il suo dolore alla notizia della morte della giovane trucidata nel quartiere di Secondigliano. Secondo lei perché Mina, una ragazza di 22 anni, dedita al volontariato, viene uccisa con tanta ferocia? «Forse per qualcosa di personale, non spetta a me dirlo. Non credo per vendetta trasversale, altrimenti tante donne come me non uscirebbero di casa» Ma la malavita non si fa scrupolo di ammazzare le donne. «Dobbiamo fare un distingo tra malavita organizzata, quella che oggi si chiama sistema organizzato, camorra, cani sciolti e schegge impazzite» Che differenza c’è? «La malavita organizzata compie traffici illegali, estorsioni e altri reati senza però avere regole interne. La camorra, al contrario, ha un suo codice. I cani sciolti, invece, sono delinquenti improvvisati e violenti, capaci di uccidere per un niente. Le schegge impazzite, a loro volta, sono persone che appartenevano a un clan che per un qualsiasi motivo è scomparso, e lavorano in proprio o si affiliano ai migliori offerenti». È stata comunque un’organizzazione camorristica a uccidere Mina. «Stento a credere che la ragazza sia stata ammazzata, in quel modo poi, da un’organizzazione camorristica. Credo che i tempi dei cosiddetti codici dei clan siano finiti. Come sono ormai passati i tempi della camorra di tipo tradizionale che, nonostante tutto il male che ha fatto, è uscita di scena proprio con il declino della Nco di Raffaele Cutolo. Quella camorra che si impegnava anche a sistemare questioni tra famiglie in lite». Che cosa è rimasto? «Violenza, droga. E i pentiti». Questo è il suo pensiero. Ma bisogna ricordare che la camorra, in periferia come in altre zone di Napoli, riesce a imporre la sua logica criminale. «No, quello che c’è ora non chiamatela camorra. Non esiste più, altrimenti quella ragazza non avrebbe fatto quella fine».
GEMMA TISCI
IL COMMENTO
Le parole non bastano
di Giuseppe Montesano
Come ogni volta che mi sento un po’ straniero, la prima cosa che mi chiedo è: che cosa ci fa uno scrittore qui? Siamo al seminario sulla camorra a Città della Scienza, e mentre Isaia Sales parla di criminalità organizzata, pacato, io ho a tratti come delle visioni: i tre bruciati nell’auto, la ragazza uccisa, i morti esibiti dalla criminalità come una bandiera insanguinata. E noi? Non saremo venuti qui solo per parlare? Ancora e ancora? Ma l’impressione, a ogni intervento, è che oggi ci sia un’atmosfera diversa. Dalle analisi di Sales, e Francesco Barbagallo, e Ilvo Diamanti, e di tutti gli altri, sembra affiorare la stessa sensazione di urgenza che mi sento addosso: questa volta i morti, e i tossici, e gli spacciatori, e i disoccupati, e gli schiacciati che stanno «fuori» attraversano le pareti ben insonorizzate dell’aula in cui si parla, e compaiono qui in carne e ossa. I discorsi sono invasi da queste presenze reali, l’accenno a quello che accade «fuori» si insinua nelle parole e le fa risuonare in modo diverso. Nessuno si addormenta, nessuno si distrae, nessuno sembra venire dal paese delle meraviglie: l’ondata di violenza e irrazionalità calata sulla città ha dato una scossa a tutti. È solo una sensazione, ma è proprio questa sensazione che mi spinge a parlare quando è il mio turno senza più farmi domande. Bisogna dare ascolto a tutte le voci di protesta pensante, ai cahiers de doléances che il popolo presenta a chi lo amministra: ascoltare il manifesto per Napoli, ascoltare la lucida intransigenza di Aldo Masullo, l’invito a non nasconderci lo stato delle cose. Che senso avrebbe governare senza entrare in sintonia con i bisogni della gente? Chi vuole governare sul serio deve essere felice che i cittadini lo sommergano di cahiers de doléances, di richieste inevase e speranze mancate: vuol dire che si trova di fronte cittadini ancora coscienti di essere persone pensanti, alleati potenziali di ogni governare bene: anzi, i soli veri alleati. L’urgenza c’è, ci stringe da vicino, e in questa giornata i discorsi degli esperti lo dicono senza remore: le mani della criminalità sull’ambiente, sullo smaltimento dei rifiuti, sul commercio, sulle opere pubbliche, e fin dentro la vita quotidiana e spicciola dei cittadini. Non è forse in atto, più o meno strisciante, una rifeudalizzazione della società? In apparenza solo l’abuso burocratico, la graduatoria «sbagliata», il balconcino in deroga, il favoritismo amorale, il partitismo amorale, l’amicalismo amorale: ma intrecciata a questa illegalità diffusa, il potere della camorra che coglie i segnali di addormentamento di un sistema per prosperarci come il verme nel marcio. E non sta diventando l’abusivismo condonato una vera e propria regola? Non bisogna dimenticare che la ripetizione di un abuso premiato può, assurdamente ma realisticamente, farsi legge non scritta: regola, costume, normalità. Ma è possibile che una società sopravviva a lungo nella distorsione sistematica delle regole? Questa giornata sta passando come se tutti volessero dire no, dire che è impossibile continuare così: e quando parla Bassolino la sensazione è che stia anche lui nella mischia, che l’urgenza agiti anche le sue parole, possa orientare le sue azioni. Ecco: il disprezzo delle parole dette «tanto per dire» oggi si sente in tutti i discorsi, ma non è accompagnato al disprezzo per le parole che pensano o cercano di pensare la realtà: perché disprezzare o ignorare chi cerca di guardare le cose come sono per provare a ribaltarle, sarebbe semplicemente il suicidio di un’intera classe politica e di tutto un ceto culturale. Questi non sono più tempi di pannicelli caldi e di menzognere nenie per i bebé, ma tempi per scelte difficili che siano capaci di sentire la realtà nei panni dei cittadini non ancora arresi, dentro la loro pelle e le loro vite. L’unica politica che ormai possiamo permetterci è quella fatta per i cittadini, per chi non ha parole da dire o non sa come dirle, per gli sfruttati di ogni genere, per chi non è soggetto ma oggetto del potere, per chi è stritolato da burocrazie e ingiustizie, per chi è strangolato dalla criminalità e dalla mancanza di occasioni. C’è ancora tempo? Sì, ma è un tempo solo per scelte difficili: quelle che cambiano davvero la realtà.
IL MATTINO 23 NOVEMBRE 2004