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mercoledì, Maggio 1, 2024
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Giugliano. Sopravvissuto ad un agguato di camorra: «Ho perso una gamba, ma non la voglia di combattere»

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La sparatoria nelle palazzine di
Giugliano ha riportato alla luce i
retaggi e le paure del passato.
Quando a Giugliano si sparava a
ogni ora del giorno e della notte, e
a cadere sotto i colpi delle armi da
fuoco non erano soltanto gli affiliati
ai clan camorristici che si facevano
la guerra, ma anche
semplici cittadini che il destino o la
sfortuna ha voluto che si trovassero
nel posto sbagliato al momento
sbagliato. Sono le cosiddette “vittime
innocenti della camorra”. A
Giugliano ce ne sono state molte,
basta pensare a Mena Morlando o
al medico Antonio De Rosa.

LA STORIA.
C’è chi, però, è riuscito a salvarsi,
avendo la meglio su quel destino
beffardo. È il caso di Domenico
Abbate, che tra gli anni ’70-’80 era
considerato il miglior meccanico
della città. La sua officina in via
Frezza era un punto di riferimento
per tutti gli appassionati di motori.
Domenico è sempre stato una persona
estroversa, il classico “amico
di tutti”. Grande intenditore di
donne, così come ama definirsi
con un pizzico di ironia, non si è
mai sposato. “Non ho trovato la persona
giusta per fare il grande passo”,
dice sorridendo.

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Nel lontano 1981, Mimmo aveva
32 anni e gli affari andavano a gonfie
vele. Nell’aria, tuttavia, si respirava
un clima di forte tensione.
Erano gli anni della guerra di camorra
tra la “NCO” (Nuova Camorra
Organizzata) di Raffaele
Cutolo e i Clan appartenenti alla
“Nuova Famiglia”. Si sparava
ovunque nella provincia di Napoli
e pure a Giugliano c’erano due
gruppi camorristici distinti che si
facevano la guerra: i Maisto legati
a Cutolo e i Mallardo alla Nuova
Famiglia. Ogni giorno si poteva
contare un morto ammazzato. A
volte i raid dei killer non andavano
come previsto e a morire erano
purtroppo degli innocenti che si
trovavano coinvolti nel conflitto a
fuoco, oppure erano “scambiati”
per l’affiliato del clan rivale da eliminare.

Un giorno di agosto del 1981,
anche Domenico fu inconsapevolmente
vittima di un agguato di camorra
nel quale perse la vita un
uomo, Gennaro Esposito. Mimmo
fu ferito a una gamba e scampò la
morte per miracolo. Quel giorno,
però, la gamba destra gli fu amputata,
ma il meccanico non perse
mai l’allegria che lo ha sempre contraddistinto.

Ora ha 65 anni, lavora
all’Anas, ha ancora tanta voglia di
vivere e ci ha voluto raccontare la
sua emozionante storia.
“Ricordo il perfettamente quel
giorno, era giovedì 27 Agosto, una
giornata caldissima e avevo riaperto
la mia officina dopo qualche settimana
di villeggiatura. Proprio quella
mattina, un cliente, Gennaro Esposito,
portò la sua automobile che
aveva bisogno di alcune riparazioni.
Ci accordammo che gliela avrei riconsegnata
nel pomeriggio. Intorno
alle 16, arrivò in officina un’altra
persona, il figlio di un boss della camorra
locale. Ricordo che mi chiese
una sigaretta, ma io gli diedi tutto il
pacchetto con l’intenzione di farlo allontanare.
Così accadde, e l’uomo si
recò al bar all’angolo della strada. A
un certo punto, dovetti correre a
casa perché era arrivato il radiotecnico
che doveva sistemare il televisore.
Mentre ero a casa, il signor
Esposito arrivò in officina per ritirare
la macchina. Chiese al mio collaboratore
dove fossi e, costatando la
mia assenza, gli disse che sarebbe
tornato tra un quarto d’ora. Verso le
18 ci rincontrammo, e prima che se
ne andasse, ci mettemmo a chiacchierare
sul marciapiede di fronte
l’officina”.

Nessuno dei due poteva
immaginare ciò che, di lì a poco,
sarebbe successo. Il racconto di
Domenico, adesso, assume i suoi
toni più drammatici, raccontati
con una precisione e lucidità disarmante.
“Di sfuggita, notai una Fiat
Panda Celeste svoltare all’angolo di
via Guglielmo Marconi. All’interno
c’erano due persone ed ebbi una
strana sensazione, come se ci avessero
attentamente osservato. Parcheggiarono,
poi uno di loro scese
dalla macchina e ci venne incontro.
Arrivato a cinque metri di distanza,
puntò contro il signor Esposito un
Safari e il fucile iniziò a sputare
fuoco. Fui colpito anch’io da uno dei
pallini che mi trapassò il polpaccio.
Ricordo che mi accasciai a terra dolorante.
La persona con cui stavo
parlando, invece, fu colpita alla pancia.
Cercò di trovare riparo ma dopo
qualche metro si accasciò a terra. Io
non vidi più nulla, ma mi dissero
che lo finirono con un colpo in testa.
A me sarebbe dovuta toccare la
stessa sorte. Provai, infatti, a rialzarmi,
nonostante la ferita, aggrappandomi
ad un’automobile.
L’autista della Panda, però, si avvicinò,
mi puntò contro la sua P38 e
mi sparò, ma per fortuna riuscì a ripararmi
col gomito. Non potrò mai
dimenticare che nessuno degli amici
del bar all’angolo mi aiutò. Fu mio
fratello che, sentiti gli spari, si precipitò
fuori dall’officina per capire
cosa fosse accaduto. Quando mi
vide a terra, sanguinante, svenne!
Gli diedi una strigliata per farlo riprendere
e gli dissi di accompagnarmi
di corsa in ospedale. Lungo
il tragitto pensavo: «Perché proprio
a me? Non ho mai litigato con nessuno
». Eppure un motivo ci doveva
essere.

Quell’uomo, Gennaro Esposito,
credo assomigliasse al figlio del
boss che venne a trovarmi in officina.
Stessi occhiali da vista bianchi,
capelli brizzolati e camicia dello
stesso colore. Un vero e proprio
scambio di persona. Un infermiere
mi chiuse la ferita in fretta e furia,
senza disinfettarla. A mio malgrado,
non si accorse che stava andando in
cancrena grassosa. Il medico mi
disse che mi avrebbe dovuto amputare
la gamba destra”. La riabilitazione
fu davvero dura, ma fu
proprio in ospedale che Domenico
trovò la forza per superare il
trauma. “Un amico venne a trovarmi
a reparto. Mi guardava e piangeva.
Ricordo che pensai «Ma perché
devo fare pietà alle persone?». Così
mi è scattata la molla. Non mi sono
mai voluto arrendere e dopo i primi
difficili mesi di convivenza con la
nuova situazione psico-fisica sono
andato avanti.

Fra quattro mesi
compirò 65 anni, ed ho sempre lavorato
senza mai appoggiarmi a nessuno.
Non mi sono mai voluto
sentire inferiore agli altri e considero
«ignoranti» chi guarda con pietà le
persone che hanno handicap fisici.
Ringrazio mia madre, una donna
eccezionale, che ha sempre cercato
di farmi sentire uguale a mio fratello.
A casa avevamo il camino e lei comandava
me per andare a prendere
la legna in cantina. Avrei desiderato
continuare a fare il mio lavoro,
quello che ho sempre amato. All’età
di 17 anni ho aperto la mia officina.
Ho avuto più di seicento macchine,
ma quella che mi resterà nel cuore è
la Fiat 125 con motore a bi-albero.
La miglior automobile che abbia
mai guidato in vita mia”. Gli s’illuminano
gli occhi quando parla
della sua amata famiglia e della sua
più grande passione, le auto. La
sua storia è un fulgido esempio di
come si debba vivere senza abbandonare
mai la speranza, lottando
con le unghie e con i denti. La sua
allegria, però, è leggermente scemata
quando alla fine dell’intervista
gli ho posto l’ultima domanda:
«La camorra può essere sconfitta?».
Mimmo ha abbassato lo sguardo e
con un pizzico di amarezza ha risposto
che “la camorra è troppo inserita
nel tessuto socio-politico della
nostra realtà cittadina. Non sono per
niente fiducioso, ma il mio augurio
è che un giorno tutto il male, l’illegalità
e di conseguenza la criminalità
organizzata, possa un giorno definitivamente
scomparire”.

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