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sabato, Aprile 27, 2024
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SEDURRE L’ELETTORE, UN’ARTE ANTICA

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Come condurre una campagna elettorale vincente e fare man bassa di voti. Un problema che si presenta ciclicamente ogni tot anni, o forse sempre visto che in Italia un appuntamento alle urne non manca mai, dando luogo a mille guide, vademecum, prontuari, kit del candidato, più o meno improvvisati. Ma il capostipite, il paradigma di tutto, va ricercato ancora una volta a Roma, negli ultimi anni della Repubblica.
Marco Tullio Cicerone, il celebre oratore, è candidato al consolato, la massima carica dello Stato, per l’anno 63 a.C. e il fratello Quinto, il destinatario delle lettere Ad Quintum fratrem, gli offre, in forma di epistola familiare, uncommentariolum petitionis, un manualetto di campagna elettorale ad hoc (ripubblicato da Salerno editrice, a cura del latinista Paolo Fedeli e con la presentazione di una vecchia volpe della politica quale Giulio Andreotti, insieme a una lettera ad Attico e all’orazione ‘’In difesa di Murena’’), che lo conduca alla vittoria con il ‘’consensus omnium bonorum.’’
Marco parte da una posizione sfavorevole: è unhomo novus, membro della classe dei cavalieri, in competizione con rivali temibili quali Gaio Antonio Ibrida e Lucio Sergio Catilina. Ma il primo, colpevole di ruberie in Acaia, è stato espulso dal Senato; il secondo, poi assolto dopo aver corrotto i giudici, è accusato di concussione. Quindi Cicerone, del resto famoso per la sua eloquenza, degno patrono di uomini consolari e ben visto da ogni ceto, si può presentare all’aristocrazia come l’unico affidabile, in un periodo gravido di pericoli, per il mantenimento dello ‘’status quo’’. Basta che non dimentichi di far capire agli ottimati che, se talvolta è sembrato parlare il linguaggio dei popolari, lo ha fatto solo per non alienarsi l’indispensabile benevolenza dell’influente Gneo Pompeo.



PROMESSE E BUGIE. Evidentemente, il Commentariolum, opera di propaganda scritta per la campagna elettorale del 64 A.C., non vuole essere, nelle intenzioni di Quinto (se, come sembra sicuro, ne è lui l’autore e non un anonimo falsificatore magari del I sec. d.C.), un trattato valido per ogni circostanza. Epperò, per l’attualità delle situazioni descritte, finisce per esserlo. I sistemi elettorali sono diversi,
come la filosofia di fondo (più importanza alla persona e meno al partito) e lo spazio dell’illegalità (brogli e intimidazioni), ma le tecniche di conquista del consenso sono simili, diremmo eterne. Roma è sempre quella, «città piena di tranelli, di inganni, di vizi di ogni genere, in cui bisogna sopportare 1’insolenza, l’astio, la tracotanza, l’odio e il fastidio di molti», gli uomini pure e, insomma, 1’Ecclesiaste docet, nihil noni sub sole.
«Occupati dell’intera città», suggerisce Quinto a Marco, incalzando tutti gli elettori, i nobili, i pubblicani, i cavalieri, i senatori, i liberti, i cittadini influenti nelle tribù e nei municipi dell’Italia intera, con un occhio di riguardo per i giovani: tieni la casa aperta a chiunque giorno e notte e conoscili tutti di persona, frequentali, blandiscili e prometti, prometti senza troppi scrupoli, ma senza assumere impegni precisi, tenendoti sulle generali. Insomma, parla in politichese, stai sul vago. Spregiudicato, persino cinico, Quinto ammonisce il fratello: «Ciò che non puoi fare, rifiutalo in modo cortese, o addirittura non rifiutarlo; la prima è comunque la caratteristica di un uomo onesto, la seconda di un buon candidato».

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CLIENTELISMO. Perché, come in guerra e in amore, anche in campagna elettorale, e in fin dei conti in politica, è tutto lecito, il fine giustifica i mezzi, e il candidatus (dalla candida toga che indossava per essere facilmente riconoscibile dagli elettori) gode di una condizione privilegiata: «Tu puoi in piena onestà – cosa che non ti sarebbe consentita nel resto della vita – ammettere alla tua amicitia tutti quelli che vuoi, mentre se in altre circostanze cercassi di farteli amici, parresti agire dissennatamente; se invece non lo facessi con molti, e scrupolosamente, in una campagna elettorale, non sembreresti affatto un candidato». Seduci quelli che ti fanno comodo, per esempio i magistrati per avere l’appoggio della legge. Da amici e clientes che ti devono favori, infatti, è doveroso attendersi voti.
Contro gli avversari, poi, visto che gli antichi sono molto meno ipocriti di noi, fioretto e pure clava. Per quanto possano essere illustri e potenti, niente timore reverenziale. Si possono denigrare, alimentando il venticello del sospetto (è un lussurioso, sperpera denaro, frequenta personaggi ambigui…), e intimidire. Magari, se si è un avvocato di grido come il nostro Marco, suscitando in loro «il timore grandissimo di un processo e dei rischi che esso comporta». E semplice tattica politica. Tanto che lo stesso Cicerone, il veemente oratore delle Catilinarie, aveva pensato per un po’ di assumere la difesa di Catilina, in vista di una possibile alleanza elettorale.
D’altronde, lo stesso Marco sa che non bisogna abusare del giustizialismo. Nella Pro Murena (44) scrive: «In un candidato non mi piace l’atteggiamento inquisitorio, che è sinonimo di sconfitta, non mi piace che si procuri testimoni in luogo di elettori, che anteponga le minacce alle lusinghe, le denunce ai saluti a chi incontra». Parole che i giacobini del centrosinistra, ma anche il Cavaliere quando si attacca alla vicenda Unipol, farebbero bene a meditare con attenzione.



Quinto Tullio Cicerone

Manualetto di campagna elettorale

Salerno, pp. 276, euro 14

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