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giovedì, Maggio 2, 2024
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“Erano di Marano, perciò venivano chiamati cafoni”, il pentito racconta la rabbia degli Abbinante

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La parola cafone trarrebbe origine dall’espressione utilizzata per indicare gli abitanti delle campagne che, in occasione degli affollati mercati cittadini, arrivavano tenendosi in legati tra loro con una fune per non perdersi: “con la fune” = “ca’ fun” = cafone.

Secondo l’Accademia della Crusca questa antica interpretazione etimologica non sarebbe sostenuta dagli studiosi, mentre resta molta diffusa nel quotidiano. Infatti il termine cafone è utilizzato, in modo dispregiativo, dai residenti delle municipalità di Napoli nei confronti degli abitanti della provincia.

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Dopo le indagini della Direzione Distrettuale Antimafia è stata disposta una nuova ordinanza cautelare contro Francesco Abbinante, già detenuto nel carcere di Catanzaro, ritenuto gravemente indiziato dell’omicidio di Vincenzo Ardimento, dettò Tattà. Si tratta di un agguato aggravato dal metodo mafioso e dai futili motivi, infatti, la vittima sarebbe stata punita per aver insultato gli Abbinante definendoli dei “cafoni”.

L’OMICIDIO DI TATTA’ E LE PAROLE DEL PENTITO

Il raid mortale venne condotto il 25 giugno del 1999 tra i porticati dello Chalet Baku. Non era ancora scoppiata la prima Faida di Scampia, infatti, Paolo Di Lauro regnava indisturbato grazie anche all’appoggio del boss Raffaele Abbinante, detto Papele ‘e Marano. Le indagini sull’omicidio sono state riaperte nel 2021 in seguito alle dichiarazioni rilasciate da diversi collaboratori di giustizia come Luigi Rignante.

Di fatto il pentito conosce bene le dinamiche interne del clan Abbinante poiché è stato affiliato dal 1997 al 2021. «Il motivo che scaturì l’azione omicidiaria nei confronti di Tattà fu che alcuni giorni prima lo stesso ebbe un’accesa discussione con Dario De Felice cognato di Guido Abbinante all’epoca gestore della piazza di spaccio per la vendita dell’eroina proprio (sott ‘o furn). Fu proprio De Felice a riferire dell’accaduto e i deprezzamenti avuti da Tattà proprio nei confronti degli Abbinante chiamandoli buoni a nulla e con il dispregiativo “cafoni», ha rivelato Rignante ai magistrati.

“CON I CAFONI NON SI SCHERZAVA”

Inoltre il pentito ha parlato di una sorta di fastidio provato dal figlio di Papele ‘e Marano a fronte dell’uso di quel termine dispregiativo. «Pochi minuti prima che si diffondesse la notizia dell’omicidio di Tattà. Francesco Abbinante si fermò, come era suo solito fare, proprio vicino a quel bancone con vetrina, e a mio dire vidi in lui proprio quel volto indiavolato ed il gesto che ho ancora impresso prese proprio uno di quei cocomeri e con il coltello lungo circa 40 cm iniziò ad inveire su quel povero cocomero con tutta la rabbia riducendolo in poltiglia asserendo che con i “cafoni” non si scherzava».

«Quando Francesco Abbinante si sentiva chiamare ‘Cafone’ – che era un appellativo con il quale erano chiamati in generale gli Abbinante, in quanto “maranesi, si imbestialiva, in quanto egli era cresciuto a Marano per poi trasferirsi a Napoli. E’ come se avesse un complesso dì inferiorità rispetto ai napoletani. Ricordo dunque la scena del cocomero che ho descritto nel testo che ho letto, in quanto mi ha colpito e la ricordo nitidamente anche perché erano i primi anni che frequentavo il clan», ha detto Rignante.

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Alessandro Caracciolo
Alessandro Caracciolo
Redattore del giornale online Internapoli.it. Iscritto all’albo dei giornalisti pubblicisti dal 2013.
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