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lunedì, Maggio 27, 2024
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«LE MATRONE DI SECONDIGLIANO TRA VITA E MALAVITA»
Le donne inveenti difendono l’unica «azienda» locale

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NAPOLI. Le donne di Secondigliano imprecanti, scarmigliate come Erinni, scese dalle case in strada a insultare i carabinieri che arrestavano il figlio del boss Paolo Di lauro, sono un’immagine che ha colpito nel profondo il resto d’Italia. Quella furia sguaiata e arrogante, le mani alzate a lanciare ciò che trovavano in tasca, in una rabbia cieca; e, però, le tute di acetato da dieci euro all’ipermercato, la divisa del proletariato estremo che ha soppiantato l’antico nero delle donne del Sud, paiono assieme i segni di un’esplosione tanto rabbiosa quanto percorsa – sotto le urla e le ingiurie – da una disperazione senza via d’uscita.
Le donne, anche le mogli dei camorristi, nell’immaginario collettivo, sono sempre “vittime”, certo consapevoli dell’attività del marito, ma impotenti ad ogni ribellione. Le cronache da Napoli smentiscono brutalmente questa leggenda: nelle intercettazioni telefoniche le mogli e le sorelle del clan rivale esultano alla notizia dell’omicidio di un boss nemico, si danno appuntamento per brindare a champagne. E le donne dei poveracci, dei pesci piccoli, degli spacciatori, riempiono le vie di Secondigliano, braccio a braccio le percorrono come un inferocito Quarto Stato, inveendo contro i “bastardi in divisa” che portano via i loro mariti, che spaventano i loro bambini.
Come un clan, un’enclave nella società civile, con altre leggi, altre lealtà, altro onore. E questo oscuro controsistema femminile sceso in piazza a Napoli educa i figli secondo i suoi codici. Codici antisociali, antiStato, nemici di ogni legalità. Di modo che quando il ministro dell’Interno afferma che esiste un piano per “sradicare la camorra da Napoli”, chi guarda le donne di Secondigliano si domanda cosa possano cinquanta, cento, cinquecento arresti, se le madri, le sorelle, le figlie di quegli uomini sono queste. Se i loro figli crescono nelle stesse leggi non scritte, a malapena scalfite da una scuola frequentata poco e male, nella stessa condanna di un mondo chiuso che si autoperpetu a, perché alla fine un ragazzo finisce col fare inesorabilmente ciò che fa suo padre.
Un quotidiano del Nord scriveva nelle scorse settimanecome, “alla vista delle matrone di Secondigliano dilatare i corpi sciatti per inveire contro i carabinieri”, venissero in mente pensieri circa il “possibile uso di missili chirurgici su determinati quartieri”. Questa ripugnanza, questa avversione, temiamo, ha percorso non pochi di quelli che hanno visto le scene di Napoli. Da Torino, da Milano, è quasi impossibile capire. Bisogna passare da Secondigliano, o da certe altre periferie del Sud, per sapere che in quei quartieri il contrabbando, o lo spaccio, sono “il” lavoro. Ciò di cui si vive, se non tutti, in molti. Per tradizione di famiglia, o per assoluta mancanza di alternative.
E allora quelle donne furiose e discinte, e il loro clan chiuso e ostile alle nostre leggi, appare meno incomprensibile. Rabbiosamente, con le unghie e coi denti, difendono l’unica “azienda” locale, del tutto indifferenti a che venda cocaina, o armi. Senza quella “azienda”, che cosa faranno i loro figli? Figli che pure muoiono o uccidono nelle faide incrociate dei clan, in una legge spietata. Ma, senza quella unica “azienda”? Che è la domanda drammatica di chi – per davvero – volesse “sradicare” la camorra da Napoli.

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