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lunedì, Maggio 20, 2024
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“Siamo innocenti!”. Massacro di Ponticelli, si riapre il caso: le presunte violenze in caserma e le prove che scricchiolano

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Ha fatto scalpore il servizio di ieri sera con l’inchiesta delle Iene Giulio Golia e Francesca Di Stefano dal titolo “Mostri o Innocenti?”, interamente dedicata alla vicenda di cronaca avvenuta il 2 luglio 1983, nota come il “massacro di Ponticelli”. Quaranta anni fa Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, due bambine di 7 e 10 anni, furono violentate, torturate, uccise, e infine date alle fiamme.

Un delitto efferato e brutale, che sconvolse non solo Napoli ma l’Italia intera, e che, dopo due mesi di indagini e tre anni di processi, condannò all’ergastolo Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo. I tre, appena maggiorenni all’epoca dei fatti, sostennero dal primo momento di essere innocenti. Oggi, dopo aver scontato la pena, continuano a dichiararsi vittime di quello che potrebbe essere uno dei più clamorosi errori giudiziari del nostro paese.

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    Il caso, ricordano le Iene, ha attirato anche l’attenzione della Commissione Parlamentare Antimafia che ha, di recente, sollevato parecchi dubbi sulle indagini svolte che l’hanno portata a valutare una possibile revisione del processo di condanna. Secondo l’analisi della Commissione, infatti, sulla vicenda potrebbe essere calata l’ombra della criminalità organizzata. L’inchiesta delle Iene ha contenuti esclusivi fatti di “nuove testimonianze che sembrano ribaltare la narrazione fatta fino a questo momento, interviste a testimoni, inquirenti e documenti inediti in cui la trasmissione è entrata in possesso”.

A poche ore dal ritrovamento, una loro compagna di scuola, Antonella Mastrillo, avrebbe raccontato alle forze dell’ordine ciò che aveva detto alla madre la sera prima, la bambina aveva visto le due compagne allontanarsi a bordo di una Fiat 500 blu con un fanalino rotto e un cartello“ vendesi”. In seguito, si scoprì che quella sera una loro terza amica le avrebbe dovute raggiungere, Silvana Sasso, ma la nonna insospettita non la fece uscire, salvandole la vita.

La bambina raccontò in seguito agli inquirenti che avrebbero dovuto incontrare un uomo di nome Gino, detto anche “Tarzan tutte lentiggini”, biondo e riccio, il quale avrebbe comprato loro un gelato. Seguendo tale pista, gli inquirenti trovarono un venditore ambulante Corrado Enrico, il quale ammise di lavorare nel rione Incis, dove vi si sarebbe recato anche il giorno della scomparsa e confermò di avere una Fiat 500 blu con un fanale rotto. Non solo.

Sembra che Corrado Enrico, detto “Maciste”, avrebbe risposto di essere attratto dai bambini e di fare abuso di alcool e che avrebbe saputo della tragedia dai giornali e dalle foto pubblicate dei due corpi – ma le immagini non furono mai diffuse. Nonostante la moglie avesse smentito anche il suo alibi sull’orario di rientro a casa e nonostante lo stesso uomo pochi mesi prima fu accusato di violenza su un bambino, gli inquirenti lo rilasciarono. L’uomo poco dopo fece rottamare la sua Fiat 500 che non era sotto sequestro. A questo punto le indagini continuano e spuntano i nomi di Ciro ImperanteGiuseppe La Rocca e Luigi Schiavo.

Tante cose non tornano: nessuno degli accusati ha una 500 blu e nessuno li ha visti sul posto dell’omicidio, eppure nel giro di pochissimo tempo i tre ragazzi furono arrestati e condannati all’ergastolo, diventando noti per il massacro come i “mostri di Ponticelli”. Per ben tre volte a Schiavo, La Rocca e Imperante è stata negata la revisione del processo, nonostante i tre si siano sempre battuti per la loro innocenza.

A supportare la loro innocenza anche la Commissione Antimafia, la quale ha accertato che all’epoca vi furono carenze investigative, possibili depistaggi della camorra. A credere fermamente nella loro innocenza anche l’ex giudice Ferdinando Imposimato che già nel 2012 con un dossier di 1400 pagine chiese la revisione del processo. Intanto, dopo 27 anni di carcere, i tre uomini sono stati rilasciati nel 2010 per buona condotta, e tutt’oggi chiedono la riapertura del casorinunciando preventivamente a qualsiasi risarcimento per ingiusta detenzione. A oggi l’unica cosa che interessa ai tre ormai sessantenni è quella di poter “ripulire il proprio nome da quell’orrendo marchio di infamia”.

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