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domenica, Maggio 19, 2024
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Il Belpaese dei rifiuti
Lo speciale di Kataweb news

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La penisola è una discarica a cielo aperto di rifiuti pericolosi. Scarti elettronici e chimici, scorie, fanghi abbandonati a ridosso di campi coltivati. Merce di scambio dell’eco-mafia che su questi traffici ha costruito un business da 18,9 miliardi di euro. Manca una normativa adeguata a tutelare l’ambiente e la salute dei cittadini. Lo grida Legambiente e lo dicono i magistrati in prima linea.


di Andrea Gagliardi



“L’Italia è la pattumiera dei rifiuti speciali”. E’ una delle conclusioni del rapporto approvato nei giorni scorsi, all’unanimità, dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse. La gestione dei rifiuti speciali, pericolosi e non, alimenta un business in continua crescita. Dai 2mila 500 milioni di euro di fatturato nel 2002, si è passati ai 2mila 900 milioni nel 2003. Quelli spariti nel nulla (e finiti perciò in discariche abusive o interrati) sono stati 13,8 milioni di tonnellate nel 2000 e 13,1 milioni di tonnellate nel 2001. Pari, per avere una fotografia del fenomeno, a due montagne di tre ettari di base e, rispettivamente, di 1.382 e 1.314 metri di altezza. Le cifre sono fornite dal “Rapporto ecomafia 2004” di Legambiente, che stima intorno ai 18,9 miliardi di euro il business complessivo dell’ecomafia nel 2003.


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Delitto ambientale, una lacuna del codice penale.

“Tutta la campagna autunnale della Commissione che presiedo – annuncia il presidente della commissione parlamentare di inchiesta, Paolo Russo (Fi) – si baserà sull’introduzione del delitto ambientale nel codice penale”. A frenare l’attività inquirente, c’è la mancanza di strumenti legislativi. Da qui la necessità dell’introduzione nel codice penale del delitto ambientale e della messa in campo, in regioni particolarmente a rischio come la Campania, di più efficaci strategie di contrasto. Un’attività di prevenzione e di repressione alla quale affiancare, in nome della tutela della salute dei cittadini, la “promozione di uno studio epidemiologico sui rischi connessi alla massiccia presenza sul territorio nazionale di discariche abusive e di rifiuti tossici e la celere attivazione di iniziative di bonifica per rimuovere il degrado e ripristinare idonee condizioni igienico sanitarie”.


Ecomafia, un giro d’affari di 18,9 miliardi di euro.

La discussione sulla normativa penale in materia ambientale va avanti da un decennio. Eppure in Italia il saccheggio dell’ambiente continua ad essere un business, soprattutto per l’ecomafia. Un termine, quest’ultimo, coniato dalla Legambiente nel 1994 per indicare il cartello di cosche dedite ad attività illecite ai danni dell’ambiente. Attività che nel 2003, segnala l’associazione ambientalista, hanno registrato un’impennata del 14,2% del giro d’affari, per un totale di circa 18,9 miliardi di euro di fatturato. E tutto ciò, malgrado l’approvazione nella passata legislatura dell’articolo 53 bis del decreto legislativo 22/97 (meglio noto come decreto Ronchi), che punisce il traffico illecito dei rifiuti. Una norma che ha consentito alle procure di mezza Italia di avviare decine d’inchieste. Ma che da sola non poteva certo bastare.
Non c’è solo l’emergenza rifiuti urbani da dover fronteggiare, attraverso la crescita della raccolta differenziata e la costruzione di moderni inceneritori. C’è anche il traffico di rifiuti pericolosi, spesso tossico-nocivi (soprattutto sulla rotta Nord-Sud Italia), a mettere a repentaglio la salute dei cittadini. E non è certo un caso se, in base ai dati di Legambiente, le regioni in cima alla classifica del traffico illecito dei rifiuti sono quelle a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Sicilia, Calabria, Puglia). L’aggressione all’ambiente è tuttavia un fenomeno complesso. I protagonisti non sono soltanto clan criminali di professione. Nel business sono coinvolte imprese legali, funzionari pubblici corrotti, intermediari, faccendieri, ditte di trasporto. Una vera ragnatela di interessi intrecciati.


L’articolo 53 bis del Ronchi, un passo avanti ma non basta.

Nella passata legislatura, il ministero dell’ambiente diretto dal verde Edo Ronchi, licenziò un testo, approvato dal consiglio dei ministri, ma arenatosi in parlamento. Il disegno di legge accoglieva l’esigenza, da più parti espressa, di passare in materia ambientale dalle attuali contravvenzioni di tipo amministrativo, prescrivibili in tempi rapidi, a “delitti” da inserire nel codice penale. E individuava tre tipi di reati (inquinamento ambientale, distruzione del patrimonio naturale e traffico illecito di rifiuti) per i quali sarebbe scattata la reclusione, fino al massimo di 10 anni in caso di disastro ambientale. La commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, già nella scorsa legislatura, nella sua relazione finale alle camere (2001), aveva invocato la necessità di sanzioni più severe, per dotare magistratura e forze dell’ordine di strumenti adeguati a reprimere gli illeciti ambientali. Eppure l’unica misura adottata in materia dal centrosinistra è stata l’approvazione dell’articolo 53 bis del decreto Ronchi (con il quale l’Italia recepì la legislazione europea in materia di gestione e smaltimento dei rifiuti), che punisce con la reclusione fino a 6 anni chi organizza il traffico illecito dei rifiuti. Un articolo stralciato dal testo di riforma organica, e approvato nell’ultimo giorno di legislatura. Un articolo prezioso, che ha consentito il moltiplicarsi delle inchieste, (finora 28), e delle ordinanze di custodia cautelare emesse (circa 190) ma di non sempre facile applicazione. “Se si è in due a smaltire illegalmente, magari una sola volta, tonnellate di rifiuti – segnala il procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna – ossia se non c’è alle spalle un’organizzazione imprenditoriale, il 53 bis non è utilizzabile”.


E la politica latita. .
Perché non si è riusciti a fare di più? Le risposte sono diverse. C’è chi, come Vigna, ha denunciato l’esistenza di “poteri forti” nel mondo industriale. E chi, come Massimo Scalia, ex presidente della commissione sul ciclo dei rifiuti, ha segnalato un riflesso condizionato di una parte del centrosinistra, succube degli interessi delle imprese. Anche e soprattutto in questa legislatura sembra difficile che si arrivi a più aspre sanzioni in materia ambientale. La Casa delle libertà, autrice del condono edilizio, malgrado le buone intenzioni del presidente della commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, il forzista Paolo Russo, non sembra avere le carte in regola. Tanto più che giacciono senza seguito in commissione proposte di legge come quella di Ermete Realacci (Margherita) che, riprendendo il testo approvato in consiglio dei ministri nella scorsa legislatura, prevede sanzioni penali per i delitti contro l’ambiente.


Nordio e gli eco-reati. .
Eppure, in questo scenario affatto confortante, si avvertono timidi segnali in controtendenza. Un elemento nuovo viene infatti dalla commissione nominata per riformare il codice penale. La commissione, diretta dal giudice Carlo Nordio, in un incontro organizzato da Legambiente lo scorso marzo, ha anticipato l’intenzione di inserire gli eco-reati nel nuovo codice. Colpisce soprattutto che un organismo insediato per depenalizzare e snellire, sia orientato verso un inasprimento delle pene proprio in materia ambientale. La riforma prevede addirittura un titolo ad hoc per questo tipo di delitti (“Reati contro il patrimonio culturale e ambientale”), distinguendo tra reati contro il patrimonio ambientale, contro l’assetto del territorio, le risorse naturali e la salute pubblica. I lavori dovrebbero concludersi entro l’estate con un testo organico che affronterà poi l’esame delle camere.
Naturalmente, la via repressiva non è la panacea. Serve un rafforzamento delle strutture tecniche di supporto, del sistema dei controlli amministrativi e di tutte le altre forme di intervento preventivo. Una politica efficace, insomma, in sinergia con l’azione giudiziaria. “Non c’è bisogno della mafia per produrre sfasci ambientali – rileva Massimo Scalia – lo dimostrano episodi come l’Acna di Cengio, il petrolchimico di Marghera o i tanti altri casi di imprese del Nord che hanno fatto strame della normativa vigente, e a volte, della più elementare decenza”.



http://www.kataweb.it/spec/home_speciale.jsp?ids=624449





Donato Ceglie: «Dove si concentrano le discariche illegali, record di tumori»





“In Campania registro un mix micidiale di anarchia, degrado e illegalità di fronte al quale prevalgono, purtroppo, cinismo e indifferenza”. Sono anni che Donato Ceglie, sostituto procuratore di Santa Maria Capua Vetere, si occupa di traffico illecito di rifiuti industriali, denunciando il binomio emergenza-camorra in Campania. Ceglie è titolare, tra l’altro, dell’inchiesta “Cassiopea”, la “madre” di tutte le indagine (ormai una trentina) nel settore. Dopo anni di trincea, accanto allo spirito battagliero affiorano tracce di disincanto di fronte alla portata dei fenomeni criminali.




Dottor Ceglie il traffico di rifiuti speciali in Italia è un business in crescita, malgrado gli strumenti repressivi introdotti. Come spiega questo fenomeno?


In realtà io non parlerei di una recrudescenza del fenomeno. I traffici illeciti ci sono sempre stati e continuano a imperversare. La novità invece è l’aumento del numero delle inchieste e degli arresti grazie agli strumenti come il 53 bis del decreto Ronchi che punisce con la detenzione chi organizza il traffico illecito dei rifiuti.


I trafficanti di rifiuti continuano a privilegiare la rotta Nord-Sud, con alcune aree del meridione, come la provincia di Caserta, ridotte a pattumiera d’Italia?

Alla storica e collaudata rotta Nord-Sud se ne stanno aggiungendo altre, intraregionali e intraprovinciali. Ogni anno 30 mila tonnellate di rifiuti speciali prendono vie illegali. Il mezzogiorno non basta più come meta dello smaltimento illecito.


Nella sua richiesta di rinvio a giudizio nell’inchiesta “Cassiopea” si fa riferimento ad alcuni carichi definiti dai trafficanti “problematici”, di una tale acidità e forza corrosiva da spaccare i cassoni di acciaio in cui venivano gettati. Accanto all’emergenza ambientale ce n’è un’altra, drammatica, che riguarda la salute dei cittadini.

Per fortuna il commissario prefettizio per l’emergenza rifiuti in Campania, Corrado Catenacci, ha previsto la nascita di un osservatorio permanente presso il suo dipartmento, per accertare il tasso di crescita delle malattie tumorali. I dati forniti dalla Asl 2 di Caserta attestano un aumento delle richieste di esenzione da ticket per malattie tumorali, tra il 1997 e il 1999, attorno al 400%. Il fenomeno riguarda la zona di maggior concentrazione di discariche illegali, ossia l’area tra Casal di Principe, Villa Literno e Castel Volturno. Per non parlare della pratica diffusa da tempo nel triangolo Qualiano, Giugliano Villaricca di bruciare rifiuti a cielo aperto. Si tratta di roghi da cui è noto si sprigionano rilevanti quantità di diossina. E poi ci si lamenta degli inceneritori.


La costruzione di inceneritori è dunque la soluzione per uscire dall’emergenza rifiuti?

E’ chiaro che di fronte a un fenomeno così complesso non esiste una sola soluzione. Occorre un approccio multilaterale e flessibile. E non si può prescindere dal coinvolgimento delle popolazioni e degli amministratori locali.


Se si pensa solo alla rivolta di Acerra, non sembra però esserci una grande disponibilità ai termovalorizzatori.

Non è detto. Penso al sindaco di Giffoni Valle Piana, che ha dato la sua disponibilità a realizzare un termovalorizzatore sul proprio territorio. Basta che si realizzino impianti di ultima generazione che abbattono al massimo le emissioni nocive.


Tornando all’emergenza, basta la via della repressione per stroncare i traffici illeciti?

E’ chiaro che la repressione da sola non basta. Neanche l’introduzione nel codice penale del “delitto” ambientale nel codice penale, pur necessaria, sarà la panacea. Senza una sinergia tra attività giudiziaria e politica l’azione penale riesce solo a offrire uno spaccato conoscitivo del problema ma non a risolverlo. Detto questo, ognuno deve fare la sua parte. A magistratura e forze dell’ordine spetta quella della repressione.


In un contesto in cui smaltire illegalmente conviene e la raccolta differenziata non decolla, spuntano intanto come funghi le discariche abusive.

Mi colpisce un fatto. Tutte le piazzole di sosta sulla Domiziana e sulle strade statali tra Caserta e Napoli pullulano di rifiuti abbandonati. E in Campania l’Arpac ha censito 1200 discariche abusive. E’ un mix micidiale di anarchia, degrado e illegalità di fronte al quale prevalgono, purtroppo, cinismo e indifferenza






La mappa della vergogna





Manca una mappa sintetica aggiornata delle discariche abusive distribuite in giro per la penisola. Il censimento più dettagliato è quello dell’ottobre 2002, ad opera del Corpo Forestale dello Stato. Si tratta della terza indagine conoscitiva sulle discariche abusive in territorio nazionale. I dati – che fotografano la realtà nel biennio 2001-2002 – sono ambivalenti: il numero complessivo diminuisce, attestandosi su 4866 unità (contro le 5422 del precedente rilevamento nel 1996), la superficie complessiva invece aumenta (19 milioni di metri quadri contro i 17 milioni e 600 mila del precedente censimento); il 15% delle discariche segnalate contiene – in tutto o in parte – rifiuti pericolosi per la salute; molte sono ubicate in aree soggette a vincolo ambientale, paesaggistico o idrogeologico. Più della metà delle discariche individuate, infine, non è ancora stata bonificata.




Puglia da record

La “mappa” delle discariche illegali non risparmia nessuna regione: in Puglia si registra la concentrazione maggiore con 600 siti abusivi. Segue la Lombardia, al secondo posto con 500 siti abusivi. Toscana, Emilia Romagna e Lazio seguono a ruota con una media di 400 discariche. Il Veneto detiene invece il “primato” per la maggior superficie di discariche, con circa 5 milioni e mezzo di metri quadri, in gran parte attribuibili agli stabilimenti industriali di Porto Marghera.

Materiali pericolosi, 705 discariche

I dati evidenziano la presenza di 705 discariche (per una superficie di quasi 6.700 Kmq) con materiali pericolosi. La distribuzione geografica è visibile in tabella. Da notare come tali discariche, pur rappresentando meno del 15% del totale, occupano una superficie di oltre il 30% della superficie totale. La maggiore concentrazione è nel Salento, nell’area circostante la città di Bari, nella zona centro-occidentale dell’Abruzzo, in Liguria e in Veneto.

Campania felix

Il dossier ecomafia 2004 di Legambiente documenta una forte crescita di discariche abusive, soprattutto in Campania. Solo ad Acerra ne sono state scoperte 25 in pochi mesi. L’ultima in ordine di tempo all’inizio del 2004: oltre 20 metri cubi di scarti di fonderia, contaminati da arsenico e altre sostanze nocive, sversati nelle campagne alla periferia settentrionale della città. In provincia di Napoli aumentano i sequestri all’interno dell’area protetta del parco nazionale del Vesuvio. E inoltre. Nel febbraio 2004 gli uomini della Gdf scoprono una megadiscarica di 50 mila mq, con rifiuti anche tossici, a breve distanza dal casello di Torre del Greco, uscita sud della Napoli-Salerno. L’ultimo sequestro in ordine di tempo, l’8 marzo 2004 a Ottaviano: 30 mila mq di rifiuti, anche pericolosi a poche decine di metri dai giardini del Castello Mediceo. Una vera e propria escalation di sequestri di discariche abusive di tutti i tipi si registra in provincia di Caserta. Uno per tutti: il 18 aprile 2003 il corpo forestale scopre 3 discariche di quasi 40 mila mq di superficie, al centro di una zona fertilissima coltivata a frutteti.







Rifiuti speciali, cosa sono




Il decreto Ronchi 1998 all’articolo 7 classifica i rifiuti in tre grandi categorie: i rifiuti speciali pericolosi, i rifiuti speciali non pericolosi e gli urbani.
I rifiuti speciali pericolosi, ai sensi dell’articolo 1 paragrafo 4 della direttiva 91/689/CEE sono, tra gli altri:



• rifiuti della lavorazione del legno e della produzione della carta

• rifiuti della produzione conciaria e tessile

• rifiuti della raffinazione del petrolio

• rifiuti da processi chimici inorganici

• rifiuti da produzione, fornitura ed uso di plastiche, gomme sintetiche, coloranti, pesticidi, prodotti farmaceutici, saponi, detergenti, disinfettanti, cosmetici, pitture, vernici, inchiostri

• rifiuti dell’industria fotografica

• olii esauriti

• rifiuti dell’industria elettronica

• rifiuti da refrigeranti e propellenti (tra cui i CFC)



Per essi sono previsti severi protocolli di trattamento e smaltimento in considerazione della loro pericolosità.


I rifiuti speciali non pericolosi
sono, tra gli altri:



• i materiali usati nell’edilizia

• i rifiuti non pericolosi derivati dalle attività industriali, commerciali, artigianali e sanitarie

• i fanghi da depurazione delle acque reflue e da abbattimento fumi




Anche per questo tipo di rifiuti vigono normative che ne impediscono, in linea di massima, l’assimilazione ai rifiuti urbani e che impongono ai produttori forme di autosmaltimento. Un’apposita procedura di sterilizzazione, essiccazione e triturazione post-trattamento consente però la declassazione a innocuo rifiuto urbano dei rifiuti derivanti da strutture sanitarie.






Smaltimento, quando il costo produce illegalità





Non esiste un solo tipo di trattamento dei rifiuti speciali, pericolosi e non. Una buona parte viene attualmente smaltita attraverso il cosiddetto recupero, previsto dai DM 5 febbraio 1998 e n°161 del 12 giugno 2002. Questi decreti hanno introdotto una procedura semplificata in base alla quale il materiale recuperato non è di fatto più considerato rifiuto e l’imprenditore è sollevato dall’adempiere dalla compilazione di formulari e da vari altri passaggi burocratici.



Polveri nel calcestruzzo, ma in piccole dosi


“Le polveri di abbattimento fumi (che sono un rifiuto speciale pericoloso) – spiega Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente – possono essere utilizzate in piccole dosi a norma di legge, nel calcestruzzo. Basta però alterare la quantità di polveri contenute nel blocco di cemento e il gioco è fatto”. Una grossa fetta di rifiuti speciali ha trovato una scorciatoia tramite lo smaltimento abusivo mascherato da recupero autorizzato. “Nella semplificazione della normativa – continua Ciafani – si sono infilati trafficanti e imprenditori senza scrupoli, che hanno approfittato dell’opportunità offerta dalle procedure semplificate”.


Termovalorizzatori, 250 euro a tonnellata

Costa di più incenerire nei termovalorizzatori. Per alcuni tipi di rifiuti, per esempio quelli ospedalieri, farlo è obbligatorio. Bruciare rifiuti solidi (spesso pericolosi e tossici) in un termovalorizzatore industriale costa tra i 250 e i 320 euro a tonnellata. Per la combustione di acque non biodegradabili il costo si aggira tra i 170 e i 190 euro a tonnellata, mentre per i solventi non recuperabili, il prezzo è intorno ai 100 euro a tonnellata.


Discarica, un vero lusso

Altra forma di smaltimento è la discarica. Ne sono previste di un tipo per i rifiuti speciali non pericolosi e di un altro per i rifiuti pericolosi. Nel primo caso il costo dello smaltimento è tra i 70-75 euro a tonnellata. Nel secondo, intorno a 200 euro a tonnellata. Dato il costo molto alto, di fatto però non esistono discariche per rifiuti pericolosi. Si preferisce, a norma di legge, trattarli attraverso un processo di “inertizzazione” (trattamento con cemento o polimeri) che ne trasforma la natura e ne consente il conferimento in discariche per rifiuti non pericolosi. L’inertizzazione dei rifiuti pericolosi però è un processo complesso che ha il suo costo. Intorno ai 120 euro a tonnellata.


Centri di stoccaggio, la tecnica elusiva del ‘giro bolla’

Non mancano perciò i casi in cui gli imprenditori si affidano a trasportatori che, a prezzo più basso di quello di mercato, smistano i rifiuti industriali in centri di stoccaggio. Qui, invece delle previste operazioni di smaltimento e recupero, i rifiuti sono a volte “declassificati” con la tecnica del cosiddetto “giro di bolla”. Si provvede cioè alla falsificazione dei documenti di accompagnamento, senza che i rifiuti siano sottoposti a trattamenti adeguati. Un solvente tossico, destinato a finire in discarica per rifiuti pericolosi, dopo una semplice miscelazione, è “trasformato” in un innocuo rifiuto urbano, ed è poi avviato (quando va bene) in una discarica per rifiuti urbani, o (se va male) gettato in discariche illegali o recuperato come compost da usare nei terreni agricoli, o come sottofondo stradale. Spesso i centri di stoccaggio costituiscono pertanto una via economica per lo smaltimento, soprattutto per quelle tipologie di rifiuto che per loro natura richiederebbero tecnologie più complesse (termovalorizzazione e l’inertizzazione) e costi superiori.
“Il 70% dei rifiuti industriali finisce nei centri di stoccaggio – rivela Margherita Gorio, responsabile rifiuti della Ecodeco, azienda di Pavia leader in Italia nel trattamento e nello smaltimento dei rifiuti industriali – una quantità enorme, la cui destinazione finale, purtroppo, non si è tenuti a documentare”. Con la consegna dei suoi rifiuti a un centro di stoccaggio il produttore degli stessi è sollevato formalmente da ogni responsabilità, perché il rifiuto è affidato a un operatore autorizzato.
“All’imprenditore – spiega sempre Ciafani – arriva una copia/ricevuta dell’avvenuto smaltimento. Dietro questa procedura cartacea apparentemente regolare, c’è però l’imbroglio. E l’imprenditore che ha pagato per lo smaltimento un prezzo più basso, non può non sapere che i suoi rifiuti saranno smaltiti illegalmente”.


Smaltimento illegale, abbattimento del 30% dei costi

Se di “attenuante” si può parlare c’è da dire che l’Italia non brilla per numero di impianti per il trattamento e lo smaltimento di rifiuti speciali e pericolosi. In un Paese abituato storicamente a gettare tutto in discarica, le strutture per la termovalorizzazione e l’inertizzazione sono poche e quelle esistenti non lavorano a pieno regime perché molti rifiuti sono smaltiti illegalmente. “Smaltire abusivamente costa in media il 30% in meno che agendo a norma di legge – chiarisce Margherita Gorio – ma non è vero che si evade perché rispettare la legge costa troppo. Il prezzo dello smaltimento rifiuti è tra le voci di costo più basse per un’azienda. Resta il fatto però le leggi in materia sono spesso poco chiare e lasciano ampi spazi a un’interpretazione che consente alle aziende di risparmiare a tutto danno dell’ambiente”.



http://www.kataweb.it/spec/articolo_speciale.jsp?ids=624449&id=624647







Il business tra camorra e burocrazia





“Sarebbe un errore attribuire solo ai clan della criminalità organizzata, l’intera responsabilità del traffico e smaltimento illecito dei rifiuti”. Così si esprimeva la commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti nella scorsa legislatura, al capitolo ecomafia della relazione finale.
Un’affermazione che resta valida. Un monito ripreso ad esempio dall’attuale presidente Paolo Russo (Forza Italia), quando evidenzia che tra i protagonisti delle aggressioni all’ambiente vi è ormai “un sistema affaristico di imprenditori senza scrupoli”. E già, perché accanto agli esponenti delle famiglie mafiose, nella gestione di questo lucroso business sono coinvolti imprenditori, funzionari pubblici corrotti, intermediari, faccendieri, ditte di trasporto. Soggetti inseriti a tutti gli effetti nei gangli del mercato legale, ma che spesso e volentieri evadono le regole pur di risparmiare sulle spese di smaltimento del materiale di scarto prodotto.
“Se nel meridione gli interessi economici legati alla gestione del ciclo dei rifiuti si esprimono con il controllo della criminalità organizzata – si legge nella relazione 2004 della commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti – nel settentrione, l’imprenditoria deviata ricerca la complicità ed il sostegno delle amministrazioni locali e della burocrazia corrotta. Sarebbe perciò errato ricondurre tutte le attività illecite nel settore dei rifiuti all’azione delle cosiddette ecomafie”.
Nel 2003 sia il Viminale che la Dia hanno tratteggiato un quadro preoccupante del fenomeno in Campania. “Con il passare del tempo – scrive ad esempio il Viminale nella relazione sull’attività svolta nel primo semestre 2003 – i camorristi hanno stretto un vero e proprio rapporto di connivenza imprenditoriale con alcuni addetti ai lavori, e sono in grado di esercitare un’azione di controllo sull’intero ciclo di rifiuti, dalla produzione, al trasporto, allo stoccaggio allo smaltimento. E la Dia, in una nota inviata a Legambiente come contributo al “Rapporto Ecomafia 2004”, ha aggiunto altri particolari sulle forme di infiltrazione e collusione in atto: “i gruppi criminali stanno tentando di inserirsi nel settore dello smaltimento dei rifiuti attraverso prestanome o servendosi dell’appoggio di amministratori compiacenti per il rilascio di autorizzazioni illegittime allo smaltimento, nonché avvantaggiandosi della professionalità di imprenditori del settore, sovente inseriti a pieno titolo nell’organizzazione criminale”.




Il traffico in Italia




Dal rapporto rifiuti 2003 curato dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (Apat) e dall’Osservatorio nazionale sui rifiuti (Onr) emerge che i rifiuti speciali prodotti in Italia nel 2000 sono stati circa 82,8 milioni di tonnellate, di cui 3,9 pericolosi, mentre quelli gestiti sono solo 69 milioni. Nel 2001 invece gli speciali prodotti sono stati 90,1 milioni, di cui 4,2 pericolosi e quelli gestiti 77 milioni.
Legambiente ha calcolato che il quantitativo di rifiuti speciali, pericolosi e non, spariti nel nulla nel 2000 è stato di 13,8 milioni di tonnellate e nel 2001 di 13,1 milioni di tonnellate. Materiale questo, finito perciò in discariche abusive o interrato. Sempre Legambiente ha calcolato nel rapporto Ecomafia 2004 che la gestione dei rifiuti speciali, pericolosi e non, alimenta un business in crescita: dai 2mila 500 milioni di euro di fatturato nel 2002, si è passati ai 2mila 900 milioni nel 2004.





Cassiopea, la madre di tutte le inchieste


L’inchiesta “Cassiopea”, coordinata dal sostituto procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Donato Ceglie (leggi anche l’intervista), può essere considerata “la madre” di tutte le indagine (ormai una trentina) nel settore del traffico illecito dei rifiuti industriali. La fase istruttoria si è conclusa lo scorso 6 novembre, con 97 richieste di rinvio a giudizio per associazione a delinquere, disastro ambientale, avvelenamento di acque, realizzazione e gestione di discariche abusive.
Nelle cave, nelle fornaci e nei terreni del casertano (soprattutto nei comuni di Cancello Arnone, Santa Maria La Fossa e Grazzanise) finivano indiscriminatamente sostanze pericolose come fanghi, solventi, ceneri da combustione, melme acide, olii minerali, rifiuti tossici. Insomma gli scarti da lavorazione di industrie siderurgiche, cartarie e conciarie del Nord Italia, il cui smaltimento illecito era reso possibile dalla falsificazione di documenti e certificati di analisi chimica, per simulare un inesistente trattamento e recupero.
Circa un milione di tonnellate di rifiuti pericolosi sarebbero stati smaltiti illecitamente per anni da un’organizzazione criminale, dal sinistro nome di “Grande Famiglia”, ramificata in tutta Italia. Produttori di rifiuti, intermediari, trasportatori, referenti territoriali per lo smaltimento illecito: una macchina oliata, sicura dell’impunità, con un giro d’affari di centinaia di miliardi.
Dalle intercettazioni telefoniche emerge il grado di pericolosità delle sostanze, spesso cancerogene. Alcuni carichi definiti dai trafficanti “problematici”, erano di una tale acidità e forza corrosiva da spaccare i cassoni di acciaio in cui venivano gettati. A tal punto che, dagli accertamenti effettuati, nei comuni Cancello Arnone, Santa Maria La Fossa e Grazzanise, risulta una concentrazione di cadmio, piombo e cromo tale da consigliare il blocco delle colture sui terreni interessati dagli sversamenti. Alcuni tra gli imputati dell’inchiesta “Cassiopea”, risultano infine indagati in altri due fascicoli aperti dalla magistratura. Il primo riguarda un traffico illecito di rifiuti connesso con attività umanitarie («Caritas»); il secondo, il rinvenimento a S.Angelo in Formis (Capua) della più grande discarica abusiva a cielo aperto del Sud Italia, contenente bidoni e fusti con rifiuti tossico-nocivi.
L’inchiesta Cassiopea è stata avviata in un’epoca (1999) caratterizzata da un quadro legislativo inadeguato (l’approvazione dell’articolo 53 bis del decreto Ronchi, risale solo al 2001), grazie a un certosino utilizzo delle norme a disposizione, come l’articolo 416 del codice penale (associazione a delinquere), applicato al disastro ambientale. A lungo è sembrato che i crimini ai danni dell’ambiente non appassionassero molto le procure italiane. A parte qualche caso isolato. Un problema culturale, oltre che normativo. Qualcosa sta cambiando, però, se è vero che dopo l’approvazione del 53 bis, sono partite in tutta Italia decine di inchieste ad opera di 18 procure, con 594 persone denunciate e 186 arresti




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