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venerdì, Aprile 26, 2024
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‘N’atu Moon’, il viaggio musicale senza compromessi di Gheto e McNew

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E’ partito dal porto di Napoli “N’atu Moon”, un viaggio musicale senza compromessi. Si tratta del nuovo album di Gheto e McNew, rispettivamente Gaetano De Cristofaro e Ferruccio Mazzone, membri della Soffitta Produzioni, una giovane crew proveniente dal cuore di Napoli.
In un momento storico in cui l’hiphop ha una risonanza mediatica ampia, come per ogni movimento, arte, genere musicale, sistematicamente ciò che arriva ai piani alti del successo finisce col distorcerne l’identità, trasformando una ribellione culturale nata dal basso in mera apparenza all’interno del sistema. Una cosa è il fenomeno popolare, dove per popolarità si intende intrattenimento e creatività di una massa di ragazzi che interagiscono tramite diverse discipline per le strade dei quartieri più disagiati, facendo si che il territorio respiri e che tutti in modo unico prendano in mano la propria libertà e i propri diritti, altra cosa è la popolarità di mercato, il ricercare consenso, il rientrare nei circuiti e catene del danaro, dove tutto è fatto con lo stesso stampo e poi viene venduto. Ricerchiamo la soluzione al di là delle parole mainstream o underground, del genere o del gusto e la troviamo nella mentalità. Si può andare dove si vuole, il fulcro sta nell’approccio con cui ci si muove. Ne parliamo con Gheto e McNew che ci raccontano della loro esperienza emergente di musica autoprodotta con l’uscita di N’atu Moon, un album che affronta tematiche sociali come il razzismo, e che, al contempo, si dedica all’introspezione e intimità con i suoi “flussi di incoscienza”.

Soffitta produzioni è nata nel 2008/2009, siamo 3 produttori e 7 MC’s, poi ci contorniamo sempre di amici e artisti che, sulla nostra stessa lunghezza d’onda, collaborano ai progetti. La nostra è, e vuole essere una “famiglia” perché non abbiamo alcun limite o vincolo, abbiamo deciso di investire su di una strada ben precisa e passo dopo passo cresciamo insieme. La musica per noi è comunicazione, se durante la sua fruizione il messaggio venisse distorto non avrebbe più senso esprimerci, ecco perché non accettiamo alcun tipo di compromesso, ci mettiamo la faccia. Abbiamo cominciato vedendoci in soffitta con un portatile spezzato a metà e facevamo le registrazioni anche col microfono del “Canta tu”, oggi N’at Moon è il nostro primo lavoro stampato fisicamente, non solo digitale come “Zona Porto” e “Grattacieli”, e sta andando benone. Abbiamo tante idee, al momento in cantiere c’è “Finger food”, un ep di pezzi velocissimi da un minuto/un minuto e mezzo l’uno, molto corposo, dura solo un quarto d’ora e ogni traccia è completamente diversa dalla precedente. Gheto ha in mente anche un progetto da solista.

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Che rapporto avete con il territorio? Vi sentite in un ambiente ostile rispetto alla vostra identità di “facce scure”?

Sicuramente siamo contro “l’ego rap” sempre in voga, e ci concentriamo su temi meno leggeri che richiedono coraggio perché non ci interessano i canoni di mercato, bensì gli aspetti umani e la ricerca anche sonora. Con questi presupposti c’è amarezza, ma non sentiamo proprio la competizione con chi va verso un’altra direzione, semplicemente aspiriamo ad un altro pubblico, facciamo cose diverse e siamo incompatibili. Contemporaneamente però, sentiamo molto forte in noi in senso di appartenenza al nostro territorio con i suoi pregi e difetti, non rinneghiamo nulla e viviamo tutto cercando però di migliorarci affrontando anche le problematiche e contraddizioni. L’hiphop è certamente intrattenimento, ma oggi durante le sfide di freestyle si sentono una marea di insulti vuoti, per noi lo show deve essere certamente carismatico e grezzo se vogliamo, ma l’improvvisazione deve avere qualità e trasmettere un messaggio, altrimenti non c’è emozione.

In base alle vostre esperienze, quali cambiamenti avete vissuto rispetto ad un recente passato in cui l’hiphop andava meno di moda?

Tutto si è ribaltato. Prima l’hiphop si faceva in strada ed era là che lo vivevi come fenomeno sociale, ti avvicinavi al breaking, mcing, writing, djing in condivisione, ed era una novità più grande di te della quale far parte. Ora invece con l’avvento del fenomeno mediatico dove l’obiettivo è l’IO più grande del NOI, solo pochi vanno a vedere dove veramente vive la cultura. Prima le cose che intrattenevano erano le novità, ora invece sono sempre gli stessi schemi che attirano, riconducibili a qualunque genere, una “monotoradio”. Su scala alta, a livello mediatico, non ci interessa molto di chi si muove così, ma quando capita questo stesso approccio anche nel nostro giro a Napoli fa pensare che ci siamo proprio impantanati. Un esempio pratico di deriva sta anche nelle sonorità: il tentativo di avvicinarsi all’elettronica 4-5 anni fa era una sperimentazione di una o due tracce in un disco, ora l’elettronica e la trap sono onnipresenti anche da parte di chi non le sa proprio fare. Fare rap bene viene da anni di esperienza prima nelle sonorità originarie dell’hiphop, invece buttarsi a riprodurre questa tecnica sull’elettronica senza basi è un fallimento. Un albero senza radici può essere bello quanto vuoi all’apparenza, ma cadrà.

Di solito vi esibite alle jam (momenti di raduno di tutte le discipline hiphop), nei centri sociali, o all’aperto magari durante un festival, avete mai provato nei locali?

Approcciare coi locali è difficile, abbiamo avuto delle proposte proprio per la presentazione del disco ma le formule non ci piacciono proprio. Anche solo un bar che normalmente mette musica senza far pagare l’ingresso, nel momento in cui io vengo a suonare esige che si faccia la porta ma senza pagarmi. A noi ci andava benissimo di non essere retribuiti, ma almeno la serata doveva restare free entry per il pubblico, altrimenti non avrebbe avuto senso. Non teng nient a verè: resto n miez a via.

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