«Speriamo che i giudici non leggono quel libro. Parla anche di noi, in un trafiletto, speriamo che non se lo vanno a leggere». Il libro in questione, neanche a dirlo, è «Gomorra» di Roberto Saviano, e l’auspicio viene ribadito al telefono dal boss vesuviano Antimo Ranucci. Che s’informa sul nome dello scrittore (che oggi vive sotto scorta), pensando alla prossima udienza dinanzi al Tribunale di Sorveglianza e con ironica scaramanzia si augura che «quel libro non se lo vanno a sfogliare». Parole captate dal nucleo operativo di Castello di Cisterna, del maggiore Fabio Cagnazzo, che ieri ha messo a segno il tredicesimo arresto nell’inchiesta che ipotizza legami tra clan e politica. In cella Raffaele Femiano, conosciuto come il «Michele Placido» della camorra per la somiglianza con l’attore della «Piovra». È lui, si legge nell’atto di accusa firmato dai pm anticamorra Luigi Cannavale e Raffaella Capasso (accolto dal gip Pia Diani), uno dei presunti trait d’union tra camorra e partiti. Un filone che non trova riscontri oggettivi. Dagli atti spunta anche il nome di Luigi Cesaro, parlamentare di Forza Italia, coordinatore provinciale degli «azzurri». È il 28 maggio scorso, a Poggioreale, quando i carabinieri ascoltano il boss Antimo Puca a colloquio con la zia: la donna – spiegano i carabinieri – parla di voti acquistati da Pasquale Puca, Antimo Verde e Cesaro». L’omissis interrompe la conversazione. Il deputato Cesaro replica così: «Non tollero che il nome mio o di un mio parente debba comparire così in una simile vicenda. Mancano riscontri, nessuno di noi è coinvolto in questa inchiesta, eppure vengo tirato in ballo, assieme al sindaco Piemonte o Capuano. Abbiamo fondato la nostra campagna elettorale su trasparenza e legalità, questi sono schizzi di fango». Nell’inchiesta spunta anche il vademecum del perfetto camorrista. È quello che il boss Antonio Petito suggerisce a Jo, extracomunitario del Magreb: «Anche se sei di un altro colore, e quindi puoi subire dei torti perché di razza diversa, se vuoi stare in mezzo alla strada e fare il camorrista, non devi fare mai scortesie. Così sarai uno di noi». Radicato il clan Ranucci. Al punto tale che il boss Stefano Ranucci può contare ogni giorno su «occhi e orecchie» in Tribunale, al telefono col fratello Alessandro che gli riferisce tutto ciò che accade nelle udienze che coinvolgono il clan. La camorra vesuviana è ben collgata ai boss di Napoli. Ai Ranucci si rivolgono i Licciardi per uccidere il boss Francesco Verde, ritenuto responsabile della morte di Gennaro Licciardi, alias la «scimmia», (ufficialmente fu la setticemia a stroncare Licciardi nel ’96 nel carcere di Voghera). La risposta dei Ranucci è negativa: «Non possiamo uccidere Verde, perché siamo in affari con loro». Ottimi rapporti anche con Ponticelli, tanto che Luciano Sarno offre un gruppo di neomelodici per la comunione del figlio del boss Ranucci. Omicidi e racket, dunque. C’è un accordo tra gruppi (Verde, Puca, Ranucci) per «estorsioni, lavori pubblici, distribuzione di caffé, di mozzarella, carta d’imballaggio». Ma anche «sui biglietti della giostra pretesi a migliaia nella festa del patrono». Il colonnello Gaetano Maruccia, a capo del comando provinciale, commenta così: «L’operazione che ha decapitato il clan Ranucci è un ulteriore stimolo per il conseguimento di nuovi appaganti risultati contro l’illegalità, con pari impegno nel capoluogo e in provincia».
LEANDRO DEL GAUDIO – IL MATTINO 18 NOVEMBRE 2007
SAVIANO: LOTTA SENZA TREGUA AI CLAN
Non si mostra meravigliato, perché «di intercettazioni di questo tipo ce ne sono altre in giro», ma è determinato ad andare avanti: «Non diamogli pace. Ai boss, ai clan della camorra, non bisogna dargli pace, la guardia va tenuta alta sempre e comunque». Ad intervenire sul Tg1 delle venti, è lo scrittore Roberto Saviano, autore di «Gomorra» che da più di un anno vive sotto scorta, perché ritenuto dal Viminale un potenziale bersaglio della camorra. Saviano viene intervistato telefonicamente mentre le telecamere mostrano la pagina del «Mattino», quotidiano dal quale ha appreso una notizia che lo riguarda in prima persona: il boss Antimo Ranucci, intercettato al telefono, spera che i giudici non leggano «Gomorra» prima dell’udienza. Il boss di Sant’Antimo si augura che i magistrati non vadano a sfogliare, in particolare, quel «trafiletto» che riguarda il clan familiare: c’è il rischio di rimanere ancora per molto al temutissimo carcere duro. Parole che agli occhi di Saviano suonano come una conferma: la parola scritta riesce a colpire la camorra, a fare male anche all’organizzazione mafiosa più radicata sul territorio. Saviano sembra scomporsi poco, di fronte ai microfoni Rai: «Ho ricevuto messaggi di questo tipo. I clan casertani e napoletani temono Gomorra, temono la pubblicità che ho rivolto sulle loro attività». Come a dire: per anni hanno agito sotto traccia, oggi che qualcuno li costringe a stare al centro dell’attenzione nazionale, si mostrano più deboli. E pericolosi. Il crimine organizzato, si sa, non ama chi li denuncia. Tanto che lo scrittore ripensa alla sua condizione di cittadino sotto scorta: «Non ci si abitua mai. Personalmente rifarei tutto anche se a volte mi pesa». Un’attenzione elevatissima quella che le cosche riservano al caso «Gomorra», ma anche alla strategia dello Stato contro l’illegalità. E lo dimostrano le 702 pagine dell’ordine di cattura che ha decapitato il clan Ranucci, firmato dal gip Pia Diani, al termine delle indagini dei pm Luigi Cannavale e Raffaella Capasso. In un’intercettazione dello scorso marzo, uno degli indagati – tale Pietro Di Biase – commenta gli effetti del cosiddetto «pacchetto Amato», il piano interforze contro droga e racket, lasciandosi andare a parole di rassegnazione: «Ormai a Napoli tira una brutta aria, ho letto dai giornali i piani del ministro Amato». Ma non c’è solo la grande ribalta. Non ci sono solo i circuiti mediatici che mettono a confronto boss e best seller. In queste ore i carabinieri sono alle prese con la necessità di proteggere un testimone di giustizia. Merce rara a Napoli e provincia. È un uomo che ha un lavoro onesto, testimone oculare dell’assassinio di Antonio Guiscardo, ammazzato nella sua auto a marzo del 2007, a pochi passi dal posto di lavoro. Lui ha visto i killer e ha compiuto un atto rivoluzionario, rivolgendosi alle forze dell’ordine. Immediati gli arresti, che inquadrano l’omicidio in una strategia di morte dettata dal boss Stefano Ranucci. Ora, dopo le manette, il compito più difficile: tenere accesi i riflettori sulla «piovra» di Sant’Antimo.
LEANDRO DEL GAUDIO – IL MATTINO 19 SETTEMBRE 2007