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Viaggio nei 50 siti fuorilegge del Giuglianese. I rom corrieri della spazzatura pericolosa: guadagnano 5 euro a carico

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I roghi li appiccano alle cinque di mattina, quando il vento spinge il fumo nero e i veleni verso il mare e grazia i 27mila abitanti di Qualiano. Nella terra dei fuochi, prima dell’alba, ardono i copertoni, ammonticchiati dovunque. Gli pneumatici non servono a riscaldare l’Onu della prostituzione che lungo tutta la Circumvallazione fa mostra di sé a tutte le ore del giorno e della notte. A loro ci pensano i magnaccia (africani e slavi per lo più) che le hanno prese in franchising della Camorra, quella con la «c» maiuscola. Le gomme sono usate come combustibile. È come una legna tossica che serve a far sparire più rapidamente le morchie di nafta che vengono sversate in abbondanza sui copertoni. Poi basta un fiammifero e, puff, il veleno è servito. Brucia prima e, a fine rogo, è impossibile capirci qualcosa in quell’impasto scuro e fetente. A Ponte Riccio, poco lontano dalla zona Asi di Giugliano, c’è l’inferno. Chi passa velocemente lungo l’Asse Mediano intuisce e qualche volta annusa. Ma per scoprirne i gironi, le balze e la dannazione bisogna addentarsi nelle strade di campagna, prima asfalto e poi pantani, neri di fango, di scorie, impregnanti di peste chimica che la pioggia di gennaio non riesce a neutralizzare. Attorno a Qualiano ci sono una cinquantina di siti di scarico. A volte piccoli, nascosti tra i frutteti, le case in costruzione, i campi da tennis mai finiti, o sotto i ponti che dal lago Patria si addentrano negli acquitrini dove ancora si ostinano ad allevare bufale.
Qualiano paga l’esoso prezzo della geografia, stretto tra le periferie di Giugliano e di Villaricca. Perché si scrive Taverna del Re, Giugliano, appunto, e si legge Qualiano. Si scrive Cava Riconta, via Ripuaria, Villaricca, e si legge Qualiano. «In un’area molto concentrata, per decenni si è scaricato di tutto, senza nessun controllo» denuncia Raffaele Del Giudice di Legambiente che qui ci è nato e ci vive e di questa battaglia ne ha fatto una ragione di vita. «Si brucia, si sotterra, si uccide una zona di frutteti ricchissima. Qui se pianti l’asta di una scopa dopo un po’ fruttifica». E ora? «Ora solo veleni di tutti i tipi». È qui che Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio e Peppe Ruggiero hanno girato il documentario «Biùtiful cauntri» che ha entusiasmato Nanni Moretti e che tra poco arriverà nelle sale.
Lungo strade e sentieri senza nome, fiancheggiati da canneti rinsecchiti dalla diossina, si possono trovare tubi catodici, divani, aspirapolveri, volumi sparsi di enciclopedie, bottiglie, parafanghi e altri residui di smaltimento di auto, in gran parte derivati del petrolio. Ci sono anche pezzi di tronchi di palme. Sono quelle infettate dal punteruolo rosso, un insetto mediorientale. Non le smaltiscono secondo la legge. Le bruciano insieme a tutto il resto. E l’animale sta sempre lì. Ma i rifiuti più pericolosi sono quelli che non si riescono a distinguere. Come attorno alla centrale Enel, dove le puttane battono accanto a un monterozzo di scorie di fonderie che due giorni fa non c’era e che è bruciato per una mattinata intera. I vigili del fuoco? Ormai nessuno li chiama più. Se v’infilate in una traversa dalle parti della Masseria del Cardinale, poco dopo la costruenda chiesa dell’Immacolata, siete in piena discarica. Qualche contadino si ostina a potare alberi di albicocche, ma l’assedio è totale. Vedono, mugugnano, ma la loro rabbia non produce effetti. E così molti tacciono. Frutteti si alternano a piccoli spazi incolti, scampìe. I più sfiduciati hanno sradicato tutto e hanno attaccato le cesoie al chiodo, perché i cumuli abusivi e tossici, crescono di giorno in giorno.
A trasportare le schifezze sono i rom. Chi ha bisogno di far scomparire monnezza pericolosa o ingombrante gli mette in mano cinque euro ed è fatta. Provvedono loro, con i propri trabiccoli improbabili a portare tutto dove l’occhio non vede, ma il naso sente e i polmoni s’incancreniscono. Del resto i nomadi tra i veleni, all’ingresso dell’area industriale, ci vivono in settecento, su un terreno dove, anno dopo anno, è stato infilato di tutto. Poco più avanti, superato l’impianto verde di Cdr, c’è una vecchia discarica abusiva dove fino a dieci anni fa, quando è stata finalmente chiusa, hanno interrato ogni specie di scoria. C’è un recinto di cemento che la contiene, ma la collinetta, dove cresce erba grigia, svetta beffarda tra gli alberi di percoche (le indimenticabili puteolane), i cui tronchi hanno ora un colore indefinibile, che intossica già a guardarlo. Non si raccoglie più nulla, sperano i consumatori. A cinque metri dall’ecomostro ci sono i teloni di alcune serre dove per ora non è ancora spuntato nulla, se mai spunterà. Per contrasto, i broccoli sono già «spicati», come altrove le mimose: c’è chi caparbio e incosciente li coltiva a due passi da una delle ex-centrali dell’ecomafia.
Nella campagna attorno a Qualiano, dove senti sempre addosso gli occhi di chi non ha bisogno di chiedere per sapere che cosa stai facendo, la tragedia non è il sacchetto di casa. Ce ne sono a montagne anche qui, ovviamente. Impudichi e sventrati, a pezzatura di un centinaio di metri, e fanno da nutrimento per cani randagi e bestie innominabili. È un contrappasso che Dante non aveva previsto per i suoi peccatori. Anche perché qui puniscono soprattutto gli innocenti. Innocenti come le folaghe (quelle che amava cacciare Ferdinando IV di Borbone), i gabbiani e qualche cormorano che sguazzano nelle acque del lago Patria. Sono immersi in una schiuma bianca che infesta le rive. E sbattono le ali come il cormorano nel petrolio della prima guerra del Golfo. Allora sapevi da dove arrivava la morte. Oggi, invece, nessuno sa dirtelo con certezza. (1. continua)


PIETRO TRECCAGNOLI
Il Mattino il 01/02/08

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