Come la trama di un film. Il killer scrive una lettera alla sua vittima e le annuncia che, dopo averlo conosciuto da vicino, ha deciso di non ammazzarlo più, accettando così il rischio di essere ucciso lui, per non aver obbedito al “Sistema”. Tutto vero, tutto raccontato in pubblico da don Luigi Merola, il prete coraggio che agli Stati generali della legalità promossi dal Pd a Caserta, ha rivelato l’incredibile “plot” degno di una pagina di Puzo o di Camilleri. Solo che qui non c’è niente di romanzato, ma ci sono solo i colori più accesi di una battaglia che don Luigi combatte da dieci anni contro i clan sanguinari di Napoli. Sette pagine per “confessare”, per rivelare i fili di un ordito che si sarebbe concluso con la morte del prete. Una lettera giunta nella sede della fondazione “’A voce d’e creature”, non anonima, anzi puntigliosamente firmata. Cosa dice il mancato sicario? «Ti conoscevo, conosco la tua testardaggine e il tuo coraggio, sei una persona che dava e dà fastidio al male e purtroppo era capitato a me di eliminarti e spegnerti. Ma fortunatamente ciò non è successo perché quel giorno quando sono entrato in chiesa tu stavi spiegando il passaggio del Vangelo sul figliol prodigo e non me la sono sentita di portare a termine il mio compito anche se sapevo le conseguenze alle quali sarei andato incontro».
Una lettera che sembra indicare anche le crepe che si stanno aprendo nel tessuto della camorra dove (basta vedere quello che succede nelle famiglie casalesi) si sbriciola la gerarchia interna grazie al giro di vite dello Stato e alle collaborazioni. Don Merola incoraggia la gente comune: «Lo sapete cosa è l’inferno? E’ la fine della speranza. Non è il fuoco, è il gelo». Chi è don Luigi, chi è questo trentacinquenne prete diventato il simbolo della lotta ai clan e che, per questo motivo, vive da quattro anni sotto scorta? E’ prete dal 1997, a meno di 24 anni: «Dovetti avere una dispensa canonica perché si diventa preti a 25». Non nasconde i suoi turbamenti: “Quando ero in seminario andai via perché mi ero innamorato, poi capii che la mia strada era la Chiesa e tornai”. Il primo incarico è subito “al fronte”, a Marano di Napoli, regno del boss Lorenzo Nuvoletta. «E’ qui che venivano Riina e Brusca per partecipare ai summit di mafia e decidere chi doveva essere ucciso e gettato nell’acido». In questo territorio controllato dalla malavita, più che dallo Stato, il viceparroco decide di indicare alla gente la “liberazione”. Così promuove un’associazione antiusura. Ma già le sue prime mosse irritano le gerarchie ecclesiastiche. «Sì, commisi l’errore di non dirlo al mio vescovo, il cardinale Giordano». E per “punizione”, don Merola viene trasferito nel quartiere di Forcella, storicamente controllato dalla famiglia di “Loigino” Giuliano.
Qui, invece di zittirsi, il giovane sacerdote alza ancora di più la voce. «Ho lavorato soprattutto con i ragazzi, spiegando loro che la camorra non dà, ma toglie, che i camorristi non sono benefattori, ma criminali. Ho rotto le scatole, perché questo è il ruolo del prete, come ci ha insegnato don Pino Puglisi». Alla prima messa, nell’ottobre del 2000, in Chiesa ci sono 3 persone. Ma don Luigi sa farsi amare: a Forcella si apre una ludoteca, una sala teatrale, un laboratorio di antichi mestieri. Il quartiere torna a vivere, ma alla camorra non piace questo prete che vuole togliere i ragazzi dallo spaccio, dal loro destino criminale. E neanche alla Chiesa va giù questo parroco ribelle, che rompe gli equilibri, che vuole “fare il poliziotto e l’assistente sociale”, per usare le parole del cardinale. E qualche ora prima di celebrare il funerale di Annalisa Durante, la giovane ammazzata per caso durante un agguato nelle strade di Forcella, un fax arrivato dalla Curia gli intima, invano, di non recitare l’omelia. «Lo sanno tutti che il 90 per cento dei miei confratelli napoletani non mi vuole bene», dice lui. Nel dicembre 2006, quando viene ucciso Giovanni Giuliano, figlio di Loigino, il cardinale Sepe decide di trasferirlo. “Non lo so perché l’abbia fatto, forse avrà pensato meglio un prete vivo che uno morto”. Luigi non si ferma: prima ottiene un incarico al ministero della Pubblica Istruzione per progetti di legalità in tutt’Italia, poi il 2 ottobre avvia la fondazione “’A voce d’e creature” per formare – insieme a Confindustria e Camera di Commercio – trenta ragazzi di strada all’anno «Bisogna accendere i riflettori, non stare in silenzio». È il suo motto. Come ha fatto a Caserta.
Corriere del mezzogiorno.it
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