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CASALESI: LA BEFFA DI SETOLA, IL BOSS SCAPPA DALLE FOGNE

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I due uomini-talpa sono sbucati dalla porta dell’inferno, quella che si spalanca sull’incrocio delle cinque vie. Lì c’è la strada che porta al borgo di Aversa, da lì si va a Lusciano e sull’asse mediano. Hanno scelto l’uscita più distante dal nascondiglio, ma anche quella più comoda e sicura, dove sapevano che avrebbero trovato facilmente i mezzi per scappare. La donna se li è trovati ai piedi, due sagome ricoperte di fango uscite dal tombino, quello di fronte al caseificio «La Normanna».
Un sobbalzo, un urlo di spavento quando la mano infangata le ha puntato una pistola alla tempia e le ha portato via le chiavi della 145 verde, la sua vettura. Erano tre uomini, racconta la donna ancora sotto choc alla polizia. No, erano due, corregge un altro testimone che ha osservato la scena da qualche metro di distanza. Sembrava di stare sul set delle «Ali della libertà», ma non era Tim Robbins quello che ha rapinato l’auto. Era Setola, Setola Giuseppe, killer di professione, l’assassino più ricercato d’Italia, il cieco capace di infilarsi in un cunicolo stretto e lungo e di nuotare nella melma per quasi un chilometro, scalzo e in pigiama. Lui e l’amico, fuggiti mezz’ora prima dalla casa-rifugio di via Cottolengo, a Trentola Ducenta, passando in skateboard da un cunicolo all’altro – come gli assassini di Giovanni Falcone nel film sulla sua morte – fino a raggiungere il canalone delle fogne e poi la libertà. Per la quarta volta in tre mesi e mezzo Setola riesce per miracolo a evitare l’arresto. L’ultima, prima di ieri, a neppure cinquanta metri dal tombino, in una traversa di via Nunziale Sant’Antonio dove è stato trovato uno dei suoi covi, ancora caldo: lo aveva lasciato un paio di ore prima. Lo stratega del terrore che ha fatto 18 morti in sei mesi, l’assassino che ha sparato da maggio a ottobre a Casal di Principe e Castelvolturno per affermare la forza e il dominio del clan dei Casalesi, anche ieri mattina ce l’ha fatta. Una fuga rocambolesca nel sottosuolo e poi in auto: con la 145 rapinata alla donna e ritrovata tra Lago Patria e Monteruscello – cioè tra il luogo della strage della sartoria e il primo nascondiglio nel quale furono arrestati i suoi fedelissimi Cirillo, Spagnuolo e Letizia – dove ne ha rapinata un’altra, una Micra blu, con la quale è tornato nel Giuglianese. Una fuga da film. È iniziata intorno alle 8 e mezza, quando i carabinieri di Aversa e Parete, una ventina di uomini, hanno circondato la casa che fa angolo con via Cottolengo, quasi di fronte all’istituto che ospita un centinaio di disabili gravi. Setola li ha sentiti arrivare quando hanno sfondato una delle due porte di ferro che proteggevano il rifugio, cinquanta metri quadri di quella che era una sorta di dépendence del fabbricato principale, che un tempo ospitava una sanitaria. Un nascondiglio lercio, due stanze e un cucinino invisibili dall’esterno e protetti da telecamere e un sistema di allarme. Dall’esterno, mentre entravano e raccoglievano una ventina di bossoli da kalashnikov, hanno sentito il rumore di una rotaia, di una botola scorrevole che si apriva. Era sotto al letto, mascherata da quattro piastrelle. Da lì si accedeva al primo cunicolo, quello percorso con gli skateboard, collegato a una cantina e poi alle fogne, quelle che un tempo correvano a cielo aperto e che portano fino alle cinque vie, all’incrocio dove Setola e il suo amico sono riemersi. Quando sono entrati, i militari hanno dovuto accontentarsi di Stefania Martinelli, 31 anni, la moglie del killer svanita nel nulla il 7 novembre, e di una pistola Beretta calibro 9, una di quelle in uso alle forze dell’ordine. Era in un cassetto, assieme a due libri, al libro mastro, a soldi. C’erano tre mazzette di banconote, due nel comodino e una nella borsa della donna: quasi 14 mila euro, l’incasso delle estorsioni commesse a caseifici e negozi della zona nell’ultima settimana. Alla fine è stata arrestata solo lei, per la detenzione dell’arma e per il riciclaggio dei soldi. Ma l’uomo della strage è ancora libero, e le indagini sulla sua cattura ripartono da zero.



Sul comodino i libri di Wojtyla e della cronista del Mattino

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«Con l’augurio che tu possa dire al più presto la stessa frase del titolo alle persone che ti sono care e alle quali vuoi bene. Il tuo amico». Il titolo del libro è «Alzatevi, andiamo», scritto da papa Wojtyla un anno prima della sua morte. Era sul comodino di Peppe Setola, con la dedica e una firma illegibile – sembra un nome straniero – regalo di epoca imprecisata fatto, probabilmente, da un sacerdote (un missionario?) e che lo invitata a cambiare vita, al pentimento. Libro che il killer aveva con sé, portato da lui stesso o dalla moglie, o forse fatto giungere in omaggio durante le feste di Natale. Non si spiega altrimenti la presenza della testimonianza e dell’esortazione di Giovanni Paolo II nella casa di un killer professionista, di un assassino che ha sparato nel mucchio e che ha fatto tanti morti estranei alle logiche di camorra. Setola leggeva le parole del papa e «L’oro della camorra» di Rosaria Capacchione, trovato dai carabinieri nel covo di via Cottolengo durante la perquisizione. Nessuna dedica, nessuna annotazione. È il solo tocco culturale del rifugio-stamberga dell’uomo della strage, che non leggeva – come i suoi uomini – giornali porno e non guardava filmini hard. Il nascondiglio di via Cottolengo, a Trentola Ducenta, era un manufatto di un solo piano, con adiacente una cucina ben fornita di cibarie: pasta, olio, e anche il cartone vuoto di una torta consumata interamente. Nascosto da un separé, il bagno. In un angolo, una sorta di cameretta dove, si presume, dormisse la figlioletta quando andava a trovare il padre. Nella camera da letto, con il crocifisso appeso a una parete, è stata trovata anche una bottiglietta vuota di «Ansiolin» di cui pare che Setola facesse uso, e due siringhe monouso non ancora usate. In giro per la stanza, due barattoli di Coca Cola vuoti, un profumo Cartier, la scatola vuota di un gioiello – trovato successivamente dai carabinieri – regalato alla moglie. Nessuna traccia di medicinali specifici per la vista, che pure non dovrebbero mancare nella casa di un quasi cieco – come lui sostiene di essere, con il conforto di una perizia medico-legale finita in un fascicolo d’indagine della Dda di Napoli. Il nascondiglio di Setola era all’interno di un recinto in pietra di tufo costituito da questo monolocale, un piccolo capannone di pochi metri quadri in lamiera, e un altro locale, dichiarato pericolante, all’interno del quale si trovava un’altra botola pronta per essere usata in caso di necessità. Sul tetto, un’antenna nuova, installata una decina di giorni fa. All’esterno, alcune decine di chili di spazzatura perché la famiglia del boss per rendersi invisibile non andava lontano a sversare i propri rifiuti. Tra un sacchetto e l’altro, una decina di bossoli calibro 7,62, quelli che armano i kalashnicov, l’arma più amata e utilizzata da Giuseppe Setola.



Stefania sparì per ritrovare il suo uomo

Era sparita nel nulla due mesi fa, tra il 7 e l’8 novembre. Lei e la bambina, che frequenta la scuola elementare e che ieri, invece, era a casa della nonna. «Sparita?», diceva l’avvocato. «La signora Martinelli non è sparita perché non è ricercata dalla giustizia. Si è solo allontanata per un po’, stanca delle levatacce notturne per le continue perquisizioni». Era andata a raggiungere il marito, approfittando dell’ultima emergenza che aveva dirottato altrove polizia e carabinieri: sui giornali, qualche giorno prima, era stata pubblicata la notizia di un prossimo attentato, già programmato, che Setola avrebbe fatto a breve contro un imprenditore. Qualcuno aveva rivisto Stefania Martinelli poche settimane dopo, la segnalavano a Casal di Principe e a Lusciano. Gli investigatori non l’avevano più riagganciata e l’hanno ritrovata solo ieri mattina, seduta sul materasso azzurro del letto a due piazze sotto il quale era nascosta la botola. La donna è stata accompagnata nella caserma dei carabinieri, fino a tarda sera la sua posizione era ancora da vagliare: le mogli non rispondono di favoreggiamento verso il marito, la pistola non era nella sua immediata disponibilità. Poi la decisione: le aveva condiviso la latitanza del marito, lei viveva nello stesso rifugio, lei sapeva della pistola nascosta nel comodino. Quindi, è stata arrestata.



Quattro mesi fa la strage

Il 18 settembre scorso la strage di Castelvolturno. Sei extracomunitari sono ammazzati in un agguato feroce firmato dai Casalesi. Il massacro avviene al km 43 della Domitiana. Restano a terra tre ghanesi, un liberiano e un cittadino del Togo. Una sesta persona, sempre di origine liberiana, muore in ospedale dove è stato ricoverato in gravissime condizioni. Le vittime hanno tutte tra i venticinque e i trentaquattro anni. Sul posto vengono trovati centotrenta 130 bossoli di pistole e mitragliette. Dopo la strage, scatta la caccia ai boss e ai latitanti. Il governo invia nella zona del casertano anche l’esercito per fronteggiare la guerra contro la criminalità organizzata. I fedelissimi di Giuseppe Setola Spagnuolo, Cirillo e Letizia vengono arrestati il 30 settembre. Il 19 dicembre è catturato anche Luigi Tartarone. Di fatto, viene così annientato il gruppo di fuoco.



«Ho già un ergastolo non me ne frega niente»



La sua forza è stata sempre la pattuglia dei fiancheggiatori, sconosciuti giovanotti reclutati quando scappò da Pavia con l’intenzione di levare gli schiaffi da faccia ai Casalesi, umiliati dagli ergastoli e dai pentimenti dei familiari stretti. Voleva essere l’uomo nuovo, il leader vendicatore, il capo militare di un’organizzazione che vedeva sfilacciata e decaduta. Soprattutto, meno temuta di una volta. «Glielo faccio vedere io, come ci rispetteranno un’altra volta», aveva detto ai suoi scappando dai domiciliari guadagnati con il solito certificato medico che attestava l’incompatibilità con il carcere. Chi aveva documentato la sua malattia, si era spinto fino a scrivere che era prossimo alla cecità assoluta e irreversibile: lui, il killer dell’eccidio alla lavanderia, l’uomo dei 18 omicidi e delle stragi mancate. Anche ieri è scappato con uno dei suoi invisibili amici, giovanissime reclute con la fedina penale immacolata e famiglie insospettabili. Come Salvatoriello, o come Calimero, gli faceva da vivandiere, autista e guardaspalle. Arrivava ogni sera in via Cottolengo, parcheggiava l’auto sul tombino nascondendolo alla vista, dormiva con il suo boss e all’indomani tornava in strada. Facendo il messaggero, il tramite tra Giuseppe Setola e gli esattori del racket, i cui nomi compaiono nel libro mastro sequestrato ieri mattina dai carabinieri e ora al vaglio del pm antimafia Cesare Sirignano. Nomi già noti agli investigatori. Cercare tracce di ciò che resta del gruppo Setola ieri mattina non era cosa agevole. Chiuso il bar Nobis, uno dei punti di ritrovo del gruppo, lì dove si racconta di una scenata fatta dal killer a uno dei suoi uomini e finita con una tazza di caffè lanciata in faccia al giovane guappo. Silenzio nei locali aperti, con aperte risate di scherno rivolte alle telecamere e ai giornalisti. In silenzio è rimasta anche la moglie, Stefania Martinelli, accompagnata in caserma alle 9 e lungamente, e inutilmente, interrogata. Non ha battuto ciglio neppure quando l’hanno arrestata e le hanno negato l’incontro con l’avvocato, differito di qualche giorno. Tanto silenzio fa a cazzotti con lo straparlare dei mesi scorsi, quando un’ambientale intercettò la voce di fiancheggiatori di Peppe Setola che parlavano di tritolo già acquistato e pronto per un «attentatone». E se fosse stato un depistaggio? Se il clamore seguito alla pubblicità data alla notizia fosse stato un trucchetto del latitante per spostare polizia e carabinieri su altre zone, «liberare» la moglie e guadagnare un rifugio più sicuro? Negli uffici della Dda di Napoli si stanno interrogando anche su questo, sulla sua capacità strategica accoppiata a una notevole spregiudicatezza. A sparare, raccontano i pentiti, è andato sempre senza casco, con il volto scoperto. «Non siamo mica orefici – diceva ai suoi – siamo assassini. E poi a me cosa importa, tanto ho già un ergastolo». Gli investigatori, però, ragionano anche su altro. Cioè, sulla debolezza di Setola che sta perdendo covi e appoggi. Dal 30 settembre sono stati arrestati quasi tutti i componenti dell’esercito, due – Oreste Spagnuolo ed Emilio Di Caterino – si sono anche pentiti. Anche la moglie è in carcere, come le donne dei capi del clan Francesco Schiavone e Antonio Iovine. «Non può andare da nessuna parte, abbiamo fatto terra bruciata attorno a lui. È finito». Finito ma pericolosissimo, più di prima pronto a sparare nel mucchio. Voci insistenti dicono anche che il gruppo di comando dei Casalesi lo abbia abbandonato al suo destino, dopo averlo impiegato come cortina fumogena – lui e i massacri fatti da lui – per distogliere carabinieri e polizia dalla caccia ai due superlatitanti, Antonio Iovine e Michele Zagaria, che, come scrivono i carabinieri in una recentissima informativa, «privilegia metodi meno appariscenti di controllo territoriale, per tutelare i propri assetti associativi e i propri interessi economici, verosimilmente intralciati dall’esasperata attenzione mediatica e istituzionale concentratasi sull’area».


ROSARIA CAPACCHIONE

Il Mattino il 13/01/09

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