Un ghigno. Il volto di un pazzo che sfida il mondo, i fotografi, i carabinieri che lo stanno portando via dalla caserma di via Laviano. La stessa maschera da folle che indossava durante le stragi. Perché lui, diceva, non faceva l’orefice ma l’assassino e non temeva nessuno, e a uccidere andava a testa alta, senza paura. Sembra quasi di vederlo, con lo stesso ghigno, mentre spara sui sei ghanesi della sartoria Ob Ob, gli sporchi neri. Ha le stesse sembianze di Alfonso Cesarano, lo spacciatore scambiato per lui e che per qualche giorno passò per l’autore del massacro. Sembrano quasi gemelli, o almeno fratelli.
Peppe Setola, che ha già una condanna all’ergastolo, sa che dal carcere non uscirà mai più. A nulla serviranno altri referti medici che certificheranno la sua cecità quasi totale, la carta dei domiciliari per gravi motivi di salute se l’è giocata una volta e l’ha bruciata. Eppure, si è avviato verso il carcere con il sorriso beffardo sulle labbra, mettendosi in posa, facendosi immortalare come un eroe. Perché eroe si sente, il Robin Hood dei camorristi di strada. Lui era quello che doveva togliere gli schiaffi da faccia ai capi casalesi, ma il progetto è miseramente fallito quando si è fatto prendere la mano dalla sete di sangue e di soldi, diventando strumento inconsapevole dei progetti di Antonio Iovine e Michele Zagaria.
Sono stati loro a guidarne le mosse a distanza, utilizzandolo come diversivo necessario a proteggere la loro latitanza. Se dubbi c’erano ancora sulla strategia unitaria dei Casalesi e sulla strumentalità della guerra populista di Setola il cieco, sono stati dispersi ieri pomeriggio, quando si è scoperto chi aveva in mano la rete di appoggi e nascondigli: il cugino di Iovine il «ninno bello», quel Riccardo che anni fa gestiva per conto suo la discoteca Gilda, a quel tempo la più famosa di Roma. C’era anche lui, nella casa di Mignano Montelungo. E c’era la sua donna, Luciana C., tecnico di laboratorio nella clinica Floria, proprio accanto al fabbricato in ristrutturazione. E non è affatto una casualità.
Mai il cugino di un capoclan, e suo fidatissimo complice, avrebbe coperto la latitanza dell’uomo delle stragi e del terrore senza il consenso esplicito di chi detta le regole. Mai Riccardo Iovine, che a San Cipriano e Caserta aveva gestito per qualche tempo le quote di un centro diagnostico, avrebbe garantito protezione e cure a un personaggio ingombrante come Setola, supericercato, senza l’ordine del «ninno». A costo di svelare il collegamento stretto tra mandanti ed esecutori dei delitti, a costo di mettere a repentaglio – come è stato – l’insospettabilità di una pedina importante dell’organizzazione, la faccia pulita che faceva da portaordini (e portasoldi?) tra capi e soldati.
Alla casa di Mignano Montelungo i carabinieri sono arrivati seguendo le tracce di chi doveva curare la frattura di Setola, ed è stata una sorpresa – e una insperata fortuna – mettere le mani sulla prova della dipendenza del killer da uno dei due capi latitanti del clan dei Casalesi. Che della partita fosse anche Michele Zagaria era ormai certo, invece, da settembre, quando una intercettazione telefonica aveva svelato la sua presenza a una riunione «tecnica» del clan. Anche alla casa di Trentola Ducenta, dalla quale era rocambolescamente scappato attraverso le fogne lunedì mattina, gli investigatori erano arrivati attraverso una donna. Cioè, seguendo e sviluppando un dettaglio emerso dalle intercettazioni telefoniche.
Quando Emilio Di Caterino, setoliano dissidente, contrario alle stragi e agli omicidi dimostrativi, si era dissociato pubblicamente dalla strategia dei falchi, era fuggito in Umbria, temendo per la sua vita. Non era stato ancora arrestato e non aveva ancora iniziato a collaborare con la giustizia, ma per il clan era ormai un traditore. Per questo Setola e i suoi amici andarono a riprendersi l’auto affidata a lui, portandola via alla moglie che ne aveva l’uso effettivo. Episodio raccontato ai pm Antonello Ardituro e Marco Del Gaudio da Emiliotto Di Caterino all’indomani del suo pentimento.
Quell’auto era stata data in permuta a una concessionaria e scambiata con un’altra vettura, intestata a uno sconosciuto napoletano. Al primo controllo su strada era stato invece accertato che l’aveva in custodia John Perham Loram, un italo-americano residente a Licola, probabilmente conosciuto negli ambienti dell’Us Navy. John è la persona scappata con Setola lunedì mattina nel cunicolo delle fogne, uno della rete di insospettabili che hanno protetto e tutelato il killer, l’assassino di familiari di pentiti, di testimoni di giustizia, di imprenditori – come Michele Orsi – che avrebbero potuto svelare ben altri nomi insospettabili. I nomi dei colletti bianchi che da tredici anni coprono Antonio Iovine e Michele Zagaria.
ROSARIA CAPACCHIONE
Il Mattino il 15/01/09
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