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ADDIO BRUNI, LA VOCE DI NAPOLI. VILLARICCA A LUTTO

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Addio Bruni, la voce di Napoli non canta più




Come spiegare a un bambino della Napoli del 2003 chi era, anzi chi è, Sergio Bruni? Forse con quello spezzone di «Operazione San Gennaro», il film di Dino Risi del ’66 in cui Totò, Nino Manfredi & Compagni tentavano di rubare il tesoro del Duomo approfittando del momento in cui Sergio Bruni saliva sul palco del Festival di Napoli, città che si bloccava per ascoltare la sua voce, il suo filo di voce che valeva dieci volte gli acuti e gli allucchi di tutti i tenorini eunuchi di ieri e di oggi.
Attonita per ben altro motivo, Napoli 2003 si scopre afona, priva della sua voce. Fu Eduardo De Filippo a definirla così una volta e per sempre, cogliendo in pieno l’anima di quei fonemi antichissimi, in cui l’eco rurale si confondeva con il progresso urbano, e la sua città, anzi la sua gente. Sergio Bruni è stato la voce della nazione Napoli come Oum Kalsoum degli egiziani, Amalia Rodrigues dei portoghesi, Edith Piaf dei francesi, Johnny Cash lo è del popolo yankee. Nell’era della globalizzazione, le melopee cariche di suggestioni contadine e di fioriture popolari di Bruni sembreranno a qualcuno anche «troppo» popolari, magari persino «volgari»: sono radici no global, sono lo zoccolo duro di un’arte antichissima, verace, resistente.
La storia di Sergio Bruni, cantante, sfugge alle logiche del sistema discografico, è basata innanzitutto sull’identificazione tra quell’ugola e la sua terra, porose entrambe, capaci di filtrare e fare proprie emozioni, vicende, culture apparentemente distanti. Certo, c’è la storia dello scugnizzo arrivato dalla campagna per combattere i nazisti nelle Quattro Giornate e poi conquistare i Festival di Napoli e di Sanremo, il cinema di Billy Wilder («Cosa è successo tra mio padre e tua madre»), il mondo (per Aznavour è stato «un caposcuola tra i più grandi con Sinatra, Trenet, Chevalier»).
Più dei dischi venduti a milioni, dei festival di Napoli vinti (nel ’62 con «Marechiaro, Marechiaro», nel ’66 con «Bella) e dei successi lanciati da Sanremo («Il mare», «Tango italiano», «Gondolì gondolà»), delle tournée in mezzo mondo, contano la vutata consegnata ai suoi eredi, la lezione di vita e d’arte che ogni aspirante cantante coglieva dai suoi concerti, soprattutto quelli, leggendari, nel teatrino di casa della sua villa al corso Vittorio Emanuele, buen retiro prima del trasferimento romano dettato da motivi familiari e di salute. Quel teatrino era aperto a tutti, o quasi: «Lo tengo in piedi, gratis, per i napoletani e per i turisti», spiegava, «non per i napolesi, che questa città sanno solamente sfruttare». Un teatrino-provocazione negli anni della canzone ridotta a folklore, ritornello caciarone, elogio dell’arte di arrangiarsi. Un teatrino in cui riconquistare l’armonia perduta, capire perché il mare non bagna più Napoli, perché Napule è ’na carta sporca e nisciuno se ne ’mporta.
Un teatrino da cui partì la vita di «Carmela», nata per sfida nel 1976 e diventata, alla faccia dei padroni della musica che non la vollero mettere su disco, il primo classico partenopeo contemporaneo. La voce di Napoli cantava Napoli, rosa, preta e stella. E poi «Chiappariello», «Napoli doceamara», «Amaro è o bene» pronta anche alla rilettura di Mina. Nel riascoltare quelle interpretazioni strepitose, quelle melodie nate per e con i versi di Salvatore Palomba, viene voglia di dare ragione a Sergio, di dirgli: «Hai ragione, la battaglia continua, i napolesi non hanno vinto, i napoletani combattono ancora». Alle perle del suo canzoniere d’autore, però, si sostituiscono improvvise e protagoniste quelle del suo repertorio d’interprete, magistero in cui non ebbe mai rivali: nella prima fase della sua carriera, più sinceramente popolare e commerciale, nella seconda più rigorosa e illuminata dall’incontro con Roberto De Simone. I cofanetti frutto della collaborazione tra i due andrebbero distribuiti nelle scuole partenopee come testo di studio. E d’amore. «Mierolo affurtunato», «’Na bruna», «Core ’ngrato», «Torna maggio», «Vieneme ’nzuonno»: le riascolti e ti ritrovi al cospetto di una città e del suo più importante cantore, della sua voce più etnicamente marcata, più verace, più profonda, più significativa.
Ecco, forse per spiegare a uno scugnizzo della Napoli del 2003 chi era e chi per noi resterà Sergio Bruni dopo avergli fatto ascoltare il grido del ladro di «Operazione San Gennaro» che, al culmine della rapina, urlava felice: «Ha vinto Sergio Bruni», potremmo dirgli che, se una notte d’inverno un viaggiatore straniero ci chiedesse di ascoltare una canzone napoletana, gli proporremmo Bruni che intona «’Na bruna» o la «Luna nova» digiacomiana: «Puozze ’na vota resuscità, scetate, scetate, Napule». E che, se dovessimo consegnare a un’astronave il senso della nostra napoletanità da mandare in orbita per chissà quali incontri, non avremmo dubbi: «Stu vico niro nun fernesce maje…».




Federico Vacalebre

Lunedì 23 Giugno 2003




LA FIGLIA ADRIANA: «Una brutta febbre alla fine lo ha vinto»



Sergio Bruni, la Voce di Napoli, non canta più. Il grande artista si è spento ieri, alle 18.06, in un letto dell’ospedale Santo Spirito, a Roma, dove si era trasferito tre anni fa per essere vicino alle figlie Adriana e Bruna, e per essere curato come serviva. Il 15 settembre avrebbe compiuto 82 anni. «Papà si è aggravato sabato 14», ricorda Adriana: «Gli era tornata una brutta febbre, com’era successo in gennaio, quando avevamo temuto di perderlo. Però, si era ripreso, aveva avuto un miglioramento che ci aveva fatto sperare. Stava benissimo, leggeva, era stato contento del mio tour in Argentina. Poi gli è tornata quella brutta polmonite, ha cominciato a tremare, lo abbiamo ricoverato. Speravamo vincesse anche questa volta la sua battaglia, ma è entrato in coma e non s’è svegliato più». Con Adriana, Bruna e suo marito Tancredi Cimmino, ci sono le altre sorelle Michela, la maggiore, e Annamaria. Ci sono la moglie di Sergio, Maria, i quattro nipoti: «Papà voleva tornare a Napoli, vogliamo che la città possa abbracciarlo per l’ultima volta». Il sindaco Iervolino e il presidente Bassolino si mettono a disposizione, Bruni riposerà nella sua città. I funerali si svolgeranno non prima di domani, probabilmente nella chiesa degli Artisti di piazza Trieste e Trento. CantaNapoli è sconvolta, Aurelio Fierro in lacrime come la moglie Marisa. «È Napule ca se ne va», commenta amaro Nunzio Gallo. «Ma è vero? Bruni è morto?» chiede Daniele Sepe. Madonna, che silenzio c’è stasera. Ma a romperlo arriva dal lungomare il concerto dei fuochi d’artificio e della banda dei pompieri di Torino. Dedicato a Sergio, neanche a dirlo.


f.v.



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INDICE EDIZIONI Lunedì 23 Giugno 2003




Bassolino e Iervolino: «Siamo più poveri»


«La Voce di Napoli se n’è andata, oggi, pochi mesi dopo Roberto Murolo, lasciando un vuoto incolmabile nella canzone partenopea», commenta il presidente della Regione Bassolino (nella foto, con Bruni), «ma quella canzone che ha portato alle somme vette dell’arte saprà ricordarlo». In perfetta sintonia il sindaco Iervolino: «Dopo Murolo, Bruni: la canzone napoletana è molto più povera. Ci stringiamo al dolore della moglie e delle figlie e troveremo quanto prima l’occasione per offrire loro la testimonianza del perenne ricordo, della gratitudine e dell’ammirazione della città».




Lunedì 23 Giugno 2003




IL COMMENTO

Quei suoni nati dalla profondità della terra



di PIETRO GARGANO



Quando Sergio Bruni vi nacque, nel mese di Piedigrotta del 1921, Villaricca era lontana da Napoli ben più dei pochi chilometri indicati dai cartelli stradali. Periferia agricola, risonava di canti contadini. È risalita da lì, da profondità misteriose di terra e cultura popolare, quella voce cristallina eppure di naso e di gola, ricca di effetti smorzati e di fioriture, musica su musica.
Quella voce levigata da studi implacabili, dalla consapevolezza feroce della propria arte, non tace: dai dischi continuerà a diffondere la bella storia della canzone napoletana.
Prima di assumere il nome d’arte si chiamava Guglielmo Chianese. Papà Gennaro muratore, mamma casalinga. Fu costretto a lasciare gli studi alla terza elementare perché mancavano i soldi per i libri. Si consolò alla scuola serale di musica, fondata per formare la banda del paese. Aveva nove anni, a undici suonava il clarinetto, alla festa del Patrono lo misero in prima fila.
Dopo due anni la banda si sciolse. Vennero – lo raccontò a Peppino De Filippo – famme, miseria, guaie ‘a tutte parte. L’adolescenza fu fatta di onorevoli mestieri improvvisati. Nel 1938 la famiglia si trasferì a Chiaiano. In piena guerra andò soldato. Ogni tanto scappava a casa e lo punivano. L’esordio avvenne in uno spettacolo per le reclute. L’armistizio lo riconsegnò a Napoli in tempo per le Quattro Giornate. L’ex soldato contribuì a salvare il ponte di Chiaiano, minato dai nazisti. Nella sparatoria un proiettile gli trapassò la gamba destra, un altro gli sfiorò il cuore. Lo portarono in ospedale su un carretto. Addio camminate con gli ottoni della banda.
La ferita diventò segno rosso di fortuna. Vittorio Parisi, col maestro Anepeta, andò a consolare i partigiani colpiti. Il giovanotto si presentò come cantante, Parisi gli diede appuntamento a guarigione avvenuta, lo rivide, lo ascoltò, gli disse «Voi non avete bisogno di maestri».
Il 14 marzo 1944 l’esordio nel cinema-teatro Reale di Napoli, gratis. Il maestro Gaetano Lama pronosticò: «Sarai il più grande artista di Napoli». Nel 1945 vinse il concorso L’ora del dilettante al Teatro Delle Palme: 298 voti contro i 43 del secondo. La Rai lo scelse tra 2.500. Ebbe 3.000 lire, lo destinarono all’orchestra di Gino Campese che gli suggerì il nome d’arte perché c’era un un altro Chianese cantante, Vittorio.
Fece la trafila delle feste, in piazze affollate di guaglione cianciose e guappi. Una volta, al termine dell’esibizione, un malavitoso ubriaco gridò: Chisto canta troppo bbuono: sparammolo. Si salvò con la fuga. La gavetta fu tuttavia relativamente breve, nel 1948 era stella di Piedigrotta nella scuderia della Canzonetta. Fu un buon anno, quello: sposò Maria Cerulli che gli diede quattro figli.
Autodidatta – l’unica esperienza con un maestro fu breve – continuò a perfezionarsi. Ogni emissione di suono, ogni gesto fu dettato da solennità consapevole. Bruni affrontò con rigore anche i festival di facile consumo. Quindici Festival di Napoli: 32 canzoni, 23 entrate in finale, due vittorie («Marechiaro Marechiaro» e «Bella»), tre posti d’onore, quattro terzi premi. Quattro Festival di Sanremo, con sette canzoni su otto portate in finale, tra cui «Il mare» e «Tango italiano», diventate dei classici. Eppure non amò mai le rassegne musicali; quando il Festival di Napoli finì, stappò lo spumante.
Divenne così popolare da essere imitato in tv. Tognazzi e Vianello lo rappresentarono con la gamba strascinata e la bocca a culo di gallina. Bruni s’indignò, voleva sfidarli a duello. «Chiedo scusa, non volevo» rispose Tognazzi.
Nel colmo della carriera cantò di tutto, dovunque. Fu il primo cantante italiano a esibirsi in uno stadio: avvenne nel 1965 per la promozione del Napoli in serie A. Fece il giro del mondo, da New York al Canada, dall’Australia al Giappone… A mano a mano, raffinandosi, selezionò gli impegni. Accolse come un omaggio dovuto, nel 1972, gli applausi dopo un concerto a San Pietro a Majella.
Pure in sala d’incisione diventò perfezionista. Del resto aveva già curato la registrazione, fin dai primi album del 1956, dell’«Antologia» per la Voce del Padrone. La gente lo adorava. Salvatore Palomba, poeta della strepitosa «Carmela», parla di «un codice, un modulo, un carisma». La passione del popolo fu affiancata finalmente dalla stima degli intellettuali. Con gli anni la voce migliorò, se possibile. Il tremolio divenne scansione intensa e potente, l’istinto si trasfigurò in magistero. Dentro, restavano la cultura popolare, gli influssi arabi e spagnoli: Napoli.
Anche il compositore fu rilevante: «Carmela» è moderna e viene da lontano. Splendide le altre canzoni dell’album realizzato nel 1976 con Palomba, «Levate ‘a maschera, Pulicenella». In maturità aveva imparato a scegliere i compagni di strada. L’intesa con Roberto De Simone creò il rilucente «Canzoniere napoletano».
Sfogò anche nella pittura la passione per l’arte. Resse una scuola gratuita di canto, fondò I Nuovi Cantori di Napoli. Nel 1999 l’incrudelire della malattia e il trasferimento a Roma. Forse è stata benigna, nella tragedia, la sorte che gli ha impedito di cogliere i segni del declino. Se ne è andato tre mesi dopo Roberto Murolo, il suo contraltare borghese, l’altro conservatore-riformista della canzone. Da qualche parte stanno cantando in duetto e magari litigano pure, affettuosamente.




IL COMMENTO /2

Carmela e le altre



di Salvatore Palomba




Sono veramente emozionato e frastornato. Ho appreso della morte di Sergio da circa mezz’ora e mi riesce molto difficile in questo momento mettere insieme le idee.
Ho condiviso gli ultimi 30 anni del suo percorso artistico, ho scritto con lui – credo – più di una ventina di canzoni, fatto spettacoli, dischi e battaglie ma mi sembra di non ricordare più nulla.
Sapevo che era malato, ma non mi aspettavo una fine così improvvisa. Gli avevo parlato per telefono non più di un mese fa e mi era sembrato abbastanza in forma. E proprio in questi giorni stavo esaminando gli ingenui elaborati dei bambini di Villaricca per il premio Villaricca-Sergio Bruni che avrebbe dovuto svolgersi a settembre e a cui stavo lavorando con la figlia Adriana e con gli amici del suo paese natale. Lo ripeto, sono bloccato dall’emozione ma non posso esimermi dal ricordarlo. Sergio è stato per me un grande amico, dotato di intelligenza e sensibilità fuori del comune che, malgrado le asperità del suo carattere, mi ha continuamente incoraggiato ed ha più di tutti apprezzato il mio lavoro. E una sola cosa voglio dire sull’uomo: è stato l’essere umano più disinteressato – quasi ai limiti dell’ingenuità e dell’incoscienza – che io abbia mai conosciuto.
Sull’artista non so che ripetere – anche considerando il mio attuale stato d’animo – quanto ho avuto già modo di scrivere su di lui: «Bruni è, prima di tutto, “la voce”, anzi “’a voce ’e Napule”, secondo una definizione popolare, ampiamente condivisa e ripresa anche da Eduardo De Filippo nella poesia che gli dedicò. L’appellativo, che ha connotato l’artista per decenni non è stato usato soltanto per indicare un presunto primato, ma per sottolineare l’appartenenza a un’etnia, di cui quella voce è indiscutibile espressione. Il suo stile vocale e forse ancor più lo straordinario pathos che lo pervade, costituisce un codice misterioso che ci riporta alle origini del canto napoletano: bisogno di canto e in senso più lato di poesia, che sono (o forse sono stati) propri dei napoletani».
Anche per quanto riguarda la parte più importante del nostro sodalizio, dovrò – per le stesse ragioni – riportare quanto già scritto in un mio libro: «Eravamo nel 1975: nei bassi e nei vicoli si ascoltavano per lo più canzoni ispirate alla malavita. La canzone napoletana, anche quella classica, era pressoché scomparsa dai programmi radiofonici e televisivi nazionali e la stampa ne parlava solo per recitarne il “de profundis”. Sergio trovò nel mio primo libro di poesie “Parole overe” alcuni testi che lo colpirono, tra cui quello di “Carmela”, che musicò quasi subito, e intorno a questi primi brani nacque il progetto del disco “Levate ’a maschera Pulicenella”, ispirato alla Napoli reale.
Tra i brani del disco, che diventò una specie di cult, e di cui si vendono i falsi ancora oggi, emerse “Carmela, che entrò a far parte del repertorio dei posteggiatori prima, e poi di quasi tutti i cantanti napoletani, così come le antiche canzoni classiche. Ma il brano è rimasto indissolubilmente legato all’interpretazione di Sergio Bruni, di cui ha connotato la seconda giovinezza artistica».
Fu questo l’inizio di una collaborazione durata circa trent’anni e ricca di tanti episodi. Ma nella mia mente ora c’è il vuoto. Non so proprio dire altro.
Riposa in pace, Sergio.
——-



L’OMAGGIO DI NINO D’ANGELO


Gli dedico un cd con i suoi successi e un duetto virtuale




di Nino D’Angelo





Tutti dovrebbero alzarsi in piedi per la sua morte. E onorarlo in silenzio. Perché Bruni è un monumento, come il Maschio Angioino, come il Vesuvio. È stato il più grande. Io sono partito da lui. Ero bambino e a casa di mio nonno sentivo le discussioni tra lui e un mio zio acquisito. Uno parteggiava per Giacomo Rondinella, l’altro per Bruni. Io scelsi Sergio, perché nel suo canto sentivo il mare, nella sua voce vedevo Napoli, i suoi vicoli, i bassi. Poi…
Poi divenni grande, ebbi successo e la sera del trionfo all’Olympia il presentatore Enzo Berri mi chiese: «Ora qual è il tuo sogno?». E io: «Voglio conoscere Sergio Bruni». E perché? «Perché io sono un cantante napoletano, lui è un cantante del mondo, come la Piaf, Brel, Sinatra». Così, tempo dopo, Berri mi disse di aver preso appuntamento con Bruni: «Tra un mese». E io: «Tra un mese? E che, devo andare dal medico?». «Se vuoi conoscerlo, devi accettare le sue regole. Decide lui quando vederti».
Arrivai da lui con Berri e un mio parente. E Bruni: «Chi è il cantante?» «Sono io», risposi. «Perché mi ha voluto conoscere?» «Perché lei è il maestro, è il più grande». Lui fece finta di non riconoscermi. Poi si mise a pianoforte e intonò un la minore. E io cantai «Carmela». Alla fine, un po’ emozionato, mi disse: «Ecco, queste sono le canzoni che lei deve cantare, che deve fare cu ’sti jeans e ’sti magliette!».
Passò del tempo e una sera, qualche giorno dopo aver cantato «Indifferentemente» in tv, mi telefonò a casa: «Ti ho chiamato per dirti che ora sei pronto per cantare una canzone con me». Ma il sogno non s’è realizzato. Salvatore Palomba, però, che è il suo paroliere, mi ha dato le basi di «Napoli doce e amara» con la voce registrata del maestro. E io la inserirò in un disco-omaggio che gli dedicherò. Canterò 12 suoi successi e, tra questi, ci sarà anche il duetto mancato in vita. Grazie maestro.





EDIZIONE NAZIONALE DEL «MATTINO» DEL 23 GIUGNO 2003 – PAGG. 1 – 16 E 17

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