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«Il punto di rottura»
Il commento Giuseppe Montesano

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Non lo sapevo che avere diciotto anni, andare a bere un frullato nella folla domenicale della Mergellina chic e sorridere a una ragazza fossero ragioni sufficienti per finire ammazzati come un animale: e ora che lo so, non riesco a crederci. Come si fa a credere all’assurdo? Un ragazzo di diciotto anni che viene accoltellato perché ha giocato per pochi attimi al gioco inebriante della seduzione. Ma in giro nelle sere di festa ci andiamo tutti, e ci fermiamo tutti a prendere un caffè o una spremuta o un martini oziosi e svagati.
Ed è dall’inizio del mondo che uomini e donne si sfiorano con gli sguardi, si lanciano frasi come ami e si sorridono fosse anche per un solo attimo di complice fantasticheria: e dovremmo essere fatti a pezzi per questo? Sotto la crosta della nostra vita sociale si sta movendo qualcosa di cupo, una forza oscura che ci riporta indietro, una mostruosa ottusità che se non ci ammazzerà riuscirà comunque a rendere molto malinconici i nostri giorni. Hai guardato la mia ragazza, le hai sorriso e per questo devi morire: da quale tribale tabù arriva questo grido? E chi sono i mutanti che urlavano davanti ai bicchieri lucenti di Cichitos: uccidilo, uccidilo? Quale codice di osceno e camorristico disonore è spuntato l’altra sera nel salottino frivolo di Mergellina? La violenza su Francesco è avvenuta nell’indifferenza della gente, e di fronte a quel ragazzo che stava morendo dissanguato per strada l’unico a muoversi in aiuto è stato un finanziere: a piazza Dante qualche giorno fa, di fronte al pestaggio di una giovane, non si mosse nessuno, forse perché non si trovavano a passare né finanzieri né poliziotti né carabinieri né vigili. Eppure devo dire che mi suona un po’ retorico l’appello a combattere il crimine da parte di chi dovrebbe vigilare sulla sicurezza dei cittadini, e li rimprovera perché sono indifferenti. È davvero così? Il cittadino ha paura: e non si può dire che abbia torto, o che esageri a non sentirsi protetto. Il cittadino che denuncia un omicidio, sa che l’omicida uscirà dopo qualche anno; il cittadino che denunciasse un funzionario corrotto, sa che correrebbe il rischio di essere arrestato lui. E sa anche, ancora più drammaticamente, che a troppa società cosiddetta civile e a troppa politica non interessa un fico secco di recuperare il minorenne; come sa che tutte le morti per lavoro, nero o bianco che sia, non impediscono a molti imprenditori di continuare a trascurare le norme senza per questo finire in galera. E del resto cosa aspettarsi di meglio da una società dove chi ruba miliardi sugli stipendi degli altri se la cava o viene premiato, e chi quello stipendio lo vede valere sempre meno è perseguitato da cartelle di tasse inesistenti?
Sì, l’omicidio di Francesco è orrendo, e la folla che secondo l’amico che era ha assistito alla scena come a uno spettacolo da circo romano, lascia in bocca un’amarezza profonda. Eppure. Se ci fossimo stati noi in quella folla, bloccati dalla paura, dall’assuefazione, dalla sfiducia, dall’abitudine, dalla religione del nuovo egoismo con cui siamo imboniti ogni giorno, la religione che predica la fine dell’inutile solidarietà e il regno perpetuo del consumatore felice: che cosa avremmo fatto, noi? Non è una domanda retorica, questa volta: me lo chiedo perché non lo so, e me lo chiedo con spavento. Ci sono momenti nei quali l’ottimismo buonista è un delitto, perché impedisce alla coscienza collettiva di avvertire la gravità di una situazione: e da molti segnali, a me sembra che oggi la situazione che viviamo qui e ora non sia lontana da un pericoloso punto di rottura. E perché dovremmo fingere che tutto va bene? Per fare come lo struzzo che nasconde la testa nella sabbia ed è divorato vivo? Sì, anche a Como o a New York ti ammazzano per nulla: ma il cittadino non può certo essere consolato dal fatto che la morte di suo figlio rientra in una statistica.
La città non è sicura, dalla Ferrovia ai Decumani a Chiaia e a dovunque, nessuno può sentirsi sicuro: la realtà è questa. Qualcosa scricchiola nella convivenza civile, nel senso di umanità che è l’anima di una collettività: la realtà è questa. Ma forse la realtà non può cambiare? Certo che può cambiare, ma non se l’allarme è sottovalutato, non se manca il coraggio politico e anche culturale di guardare le cose come sono: chi è governato come chi governa, ciascuno per la sua parte. Questo è solo un articolo di giornale, carta sbiadita che dura meno di un giorno, ma è carta che ha ancora voglia di interrogarsi e interrogare per chiedere di cambiare, nella piccola vita quotidiana che è di tutti, quella di ogni giorno, ora. Nessuno di noi ha voglia di morire per uno sguardo o un sorriso o un cellulare. Nessuno di noi vuole blindarsi in casa, e vivere nella paralisi della paura. Non ci sta nessuno, a questa lenta e lugubre decadenza. Non ci sta nessuno, a questo gioco. O forse sono troppo ottimista?


Giuseppe Montesano – Il Mattino 17 febbraio 2004

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