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venerdì, Marzo 29, 2024
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«DIECI ANNI. IERI COME OGGI»

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Ogni tanto capita anche a me. Incontro qualcuno che mi dice: «Ricordo, lei è stato direttore del Mattino per qualche anno. Bella Napoli, eh. Fortunato lei. I napoletani, poi gente magnifica, la voglia di vivere nel sangue, la fantasia nel cuore, il genio dell’inventiva».
Vero. Arrivai con Sergio Zavoli in via Chiatamone, lui direttore e io vice. Nell’ottobre ’94 mi misero sulla poltrona che fu di Giovanni Ansaldo e di Matilde Serao, loro indegno successore. Per cinque anni ho osservato Napoli da quella finestra che dà sulla galleria e allungando lo sguardo si arriva fino a piazza dei Martiri da una parte e alla villa comunale dall’altra. Ho imparato molto. Da quella redazione passava gente come Mimì Rea e Antonio Ghirelli. Ma potrei citarne cento, li ho tutti in mente. Era il momento del Rinascimento napoletano. Fatte macerie della politica affaristica, demolita per via giudiziaria una classe politica che vantava ministri e presidenti, lasciata alle spalle la grande guerra di camorra scatenata da Cutolo con i suoi cinquecento morti, riesumata l’inchiesta su Giancarlo Siani, il cronista assassinato perché aveva capito troppo dei boss e ora dovevano essere i boss a pagare quell’orrendo delitto, Napoli sembrava aprirsi a una nuova stagione. Bassolino sindaco, Improta prefetto, due galantuomini, un Ciampi che voleva il G7 sul golfo e sotto il Vesuvio, Clinton che faceva jogging su via Caracciolo tra gli applausi dei passanti. I Grandi della Terra riuniti a Castel dell’Ovo e tutto il mondo ad ammirare quello spettacolo, quelle meraviglie della natura, della storia e dell’arte, tra Capri e Ischia, Posillipo e il Vesuvio, poi voglia di cultura, la città che ritrovava le sue aiuole e i suoi fiori e nessuno che li calpestava più. La memoria non mi aiuta, rimuove i ricordi con la liscivia del disincanto, la memoria mi confonde il senso forte di quegli anni di speranza di farcela, ogni tanto spezzati da lampi d’inusitata violenza. Esempi. Una bimba assassinata per strada, all’uscita dalla scuola, centrata dal fuoco di una sparatoria tra rivali. Dicevano: mai più. Un bambino dell’hinterland violentato, assassinato, bruciato e le ceneri disperse in una discarica. Una banda di pedofili. Orrore profondo nel dover raccontare quella Napoli. Dicevamo: passerà ’a nottata. De Filippo aiutava a tenere accesa la fiammella della speranza. Ma qualcuno già ricordava un’altra frase del Grande Eduardo: fuitevenne. Dicevamo: no, si deve restare, combattere, vincere. Rapinato tre volte per strada o sotto casa, o all’uscita dal ristorante, non ho mai smesso di amare quella città. Ora mi separano duecento chilometri d’autostrada. Ma quanti anni luce? Adesso la domanda è un’altra. Napoli è irredimibile? Nessuno e niente potrà salvarla dal degrado: da quello che dissemina le strade di immondizia maleodorante a quello che consente ai ragazzotti impuniti e impenitenti di scorazzare sibilando dagli scooter i loro messaggi di violenza repressa, pronta a esplodere. Piccole e potenti pantere che si sentono padrone della strada, padrone di chi l’attraversa. La cronaca, memoria del giorno per giorno, si incarica di scandire questo degrado complessivo. Ne coglie il suo diffondersi, l’intrecciarsi con svariate forme di illegalità diffusa, segnala una paura palpabile, tangibile, che non ha più ora di punta. È uguale di giorno e di notte, in centro città e in periferia. Per dirla con Pino Daniele, se Napoli è una carta sporca, perché nessuno se ne importa? Per fortuna non è così, non del tutto così. Sono molti a importarsene, a impegnarsi, a scommettere sul fatto che una delle più belle città del mondo, dico del mondo, non può morire di asfissia, non deve restare in ginocchio, non può accettare che la violenza, quella clamorosa dei clan e quella diffusa a pioggia della delinquenza impazzita pensino di governare il territorio con la forza dell’arroganza e dell’illegalità. Ma, mi dicono in tanti ormai, la paura è diventata un sudore leggero, imperla i volti, impedisce di vedere, fa scemare il coraggio di denunciare. In una città dove le pattuglie della polizia impegnate nell’eseguire arresti vengono sfidate con i bastoni, le auto rovesciate, ed è sempre guerriglia di strada, di rione, di quartiere. Si respira un dilagante senso di impunità. La prepotenza sembra avere il sopravvento. La ferocia della violenza calpesta il minimo senso del diritto. La ragione viene spenta dal luccicare delle lame, dal rumore sordo degli spari. Si uccide per guerra di clan, per la supremazia nel territorio e negli affari, si ammazza per seguire la spirale delle vendette dirette e trasversali, si scanna per rapina, per scippare un Rolex, per gelosia, e, giù giù, perfino per un bicchiere di birra, per un mozzicone di sigaretta lanciato per scherno, per una parola di troppo. Dai grandi, loschi e ricchissimi affari di camorra, anzi del «Sistema» che si arricchisce e alimenta il suo esercito di aspiranti killer per vocazione, bisogno e desiderio di gloria nella gerarchia del crimine (fino a proteggerne la detenzione con adeguata assistenza legale), per arrivare a incontrare quel posteggiatore abusivo che detta la tariffa. La mancia dev’essere quella se si vogliono ritrovare le gomme intatte. Non ovunque è così, ma è anche così. La domanda è: Napoli oggi vive, subisce uno scandalo più grande e più grave che nel suo passato recente? Voglio dire: quel che sta accadendo è al di fuori e al di là del pensabile, del consentito? La politica ha qualcosa da rimproverarsi mettendosi davanti alle opere promesse e mai realizzate, ai progetti di futuro sbandierati per anni e poi finiti nel pozzo del passato remoto? Da est a ovest Napoli è rimasta quella che ho lasciato e che rivedo intatta, con dolore, solo nel degrado. Di una sola cosa questa città deve avere davvero ancora più timore che del crimine: di farci l’abitudine, di accettarlo come male inguaribile e perciò stesso rassegnarsene come è per l’inevitabile. Troppo basse, flebili, incerte le voci della rabbia e della riscossa. Certo, i media offrono una rappresentazione della città a cerchi di gesso su pezzi di piombo, trascurandone il molto di buono e di bello che ha e che è. Ma imbrattare di sangue, ogni giorno, giorno per giorno, questo patrimonio non è solo offenderlo e umiliarlo: è annientarlo, dissolverlo. Non so se è l’esercito per le strade la soluzione. Ho molti dubbi al riguardo. Il vero esercito capace di salvare la città di Napoli sono i napoletani e, accanto a loro, ma non con le mani in mano, tutti gli italiani. Noi tutti, insomma.



Paolo Graldi
Editorialista de “Il Mattino” e “Il Messaggero”

tratto dall’edizione de “IL MATTINO” del 31 OTT. 2006

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