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lunedì, Maggio 6, 2024
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AGENTE UCCIDE BABY-RAPINATORE DI 13 ANNI

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SCAMPIA- MUGNANO – Via Aldo Moro, Scampia, ore 18. Salvatore, 13 anni, guida lo scooter, un Beverly 200. Thomas, 17 anni, è seduto dietro e impugna una pistola giocattolo. Poco più che un bambino il primo, adolescente il secondo, adulti quanto basta per imparare il mestiere di rapinatori sulle strade della periferia impietosa. Dall’altra parte del mondo un ragazzo di vent’anni, poliziotto in servizio presso un commissariato, senza divisa perché oggi è il suo giorno libero, guida un Liberty 150, nascosta sotto il giubbotto una pistola vera. «Questa moto la vogliamo noi – dice Thomas, puntando l’arma verso la vittima designata, senza sapere che si tratta di un tutore dell’ordine – scendi senza fare troppe storie». L’agente risponde alla minaccia nello stesso modo, tira fuori l’arma e la punta contro gli aggessori, si qualifica: «Io sono un poliziotto». «Qui si mette male, scappiamo», grida Thomas. Ma non c’è il tempo di fare marcia indietro, dalla pistola dell’agente è già partito un proiettile, colpisce il 13enne al torace, continua la sua corsa, finisce nella spalla destra di Thomas, che lascia cadere a terra la pistola. A Salvatore la ferita fa tanto male però trova la forza di continuare a guidare. Le braccia di Thomas, strette intorno all’amico, sono sempre più deboli. La fuga disperata termina sull’Asse mediano, a pochi metri dallo svincolo per Mugnano. Salvatore perde il controllo del mezzo, scivola a terra, è morto. Due carabinieri si trovano a passare in zona: «Cosa è successo?». «Un tizio ci ha sparato addosso – mormora Thomas – e si è portato via la nostra moto». Del Beverly, infatti, non c’è traccia.
Sul posto la polizia, altre pattuglie dell’Arma, il magistrato di turno Monica Campese, due ambulanze. Per uno dei mezzi di soccorso, quello che avrebbe dovuto prendere a bordo il tredicenne nella speranza di offrirgli un soffio di vita, il viaggio termina qui. Sull’altra ambulanza viene caricato Thomas. Trasportato all’ospedale San Giuliano di Giugliano, mezz’ora dopo il ragazzo si ritrova faccia a faccia con l’agente che ha sparato: è necessario il riconoscimento dell’aggressore da parte della vittima perché le due vicende vengano messe in collegamento. C’è ancora il dubbio, infatti, che la tentata rapina e la morte di Salvatore possano appartenere a scenari completamente diversi. Terminato il confronto, il poliziotto viene accompagnato in Questura perché fornisca ai superiori la sua versione dei fatti.
Nel frattempo viene trovato lo scooter. Non sulla strada, ma in un fosso. Prima dell’arrivo delle forze dell’ordine, delle ambulanze e del magistrato, Thomas lo ha buttato giù da un cavalcavia, nella speranza di cancellare ogni traccia di quelle che erano state le sue cattive intenzioni.
Il corpo di Salvatore resta sull’asfalto per quasi tre ore. Prima del furgone della polizia mortuaria arriva la disperazione dei familiari. La mamma si getta sul bambino perduto per l’ultimo abbraccio, manda fuori con un grido tutta la rabbia che ha dentro: «Qualunque cosa abbia fatto non dovevate sparare, non dovevate ucciderlo». Come sono andate le cose, ormai, lo sanno tutti. E gli uomini in divisa, schierati intorno, sanno di dover fare da bersaglio per il dolore infinito dei parenti. Poliziotti o carabinieri non fa differenza, volano schiaffi, la situazione viene riportata alla normalità con molta fatica e con l’intervento di altre pattuglie.
Salvatore abitava in via Labriola, lotto G. Thomas al Viale della Resistenza. Le loro storie si incrociano, forse per caso, verso un destino che lascia poche alternative. E si incrociano, poi, con il destino di un poliziotto che ha soltanto una manciata d’anni in più e tanta, tanta paura quando si vede puntata in faccia un’arma.


PAOLA PEREZ




Il poliziotto in lacrime : «Ho visto quell’arma e ho avuto paura»




«Aveva solo tredici anni? È morto? L’ho ucciso io? Mio Dio, perdonami». Un fiume di lacrime scivola lungo il viso del giovane poliziotto mentre, davanti ai suoi superiori e al questore Franco Malvano, mette insieme i ricordi di un dramma che non potrà cancellare.
Cosa è successo?
«Ero sulla mia moto, in via Aldo Moro, dovevo andare a fare una commissione. Andavo piano. C’era un gruppo di ragazzi, fermi intorno a due o tre motorini. Uno di loro ha cominciato a guardarmi fisso, poi è saltato su uno scooter con un amico. Ho capito subito che mi stavano seguendo, ho cercato di seminarli ma non ci sono riuscito, avevano un ciclomotore più potente del mio».
E a un certo punto ti hanno bloccato.
«Sì. Quello seduto dietro, il più grande, aveva una pistola e me l’ha puntata in faccia. Ha detto: ”Se non mi dai il motorino sparo”. E io ho avuto paura. Temevo che potessero arrivare anche gli altri ragazzi del loro gruppo. È successo tutto in un attimo. Mi sono guardato intorno, non c’era nessuno, se avessi gridato non mi avrebbe sentito nessuno».
Così hai tirato fuori la pistola.
«Che altro potevo fare? Volevo colpire il rapinatore al braccio, fargli cadere la pistola, e così è stato, nemmeno mi sono accorto che il proiettile aveva attraversato il corpo del suo amico. Sono scappati. Non immaginavo che il ragazzino alla guida fosse ferito in modo così grave».
Non hai cercato di inseguirli?
«No. Ho preso il telefonino e ho chiamato il ”113” per chiedere l’intervento di una pattuglia, ho raccontato subito tutta la verità, ho detto che avevo subìto un tentativo di rapina e che avevo sparato contro i miei aggressori. Qualche minuto dopo, dalla centrale, mi hanno informato che c’era un ragazzo ferito all’ospedale di Giugliano. Poi mi hanno accompagnato da lui, c’era bisogno di verificare se si trattava della stessa persona che aveva cercato di portarmi via la moto».
L’hai riconosciuto subito?
«È difficile dimenticare il volto di una persona che ti appena puntato la pistola in faccia».
Quando hai saputo di Salvatore?
«Quando sono tornato a Napoli. Mio Dio, è terribile, terribile».
p.p.



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LA STORIA DEI DUE RAGAZZI: ANCHE PER THOMAS UN DRAMMA IN FAMIGLIA


Salvatore senza infanzia, una vita già scritta




Per un ragazzino la pistola finta è un gioco. Potrebbe trovarla, domani mattina, nella calza della Befana. Ma per Salvatore, a 13 anni, il tempo dell’infanzia era passato da un pezzo e la pistola finta poteva servire a un solo scopo, replicare quella vera nella battaglia quotidiana (vera anche questa) tra guardie e ladri. Viveva a Scampia, Salvatore, nelle case alveare dove la lettera dell’alfabeto che distingue il «lotto» si sostituisce al numero civico assegnato a ogni singolo palazzo e, in qualche modo, lascia andare via ogni parvenza di identità. Un destino segnato fin dal primo giorno? Il suo papà, che da dieci anni non stava più con la sua mamma, adesso è detenuto nel carcere di Lodi: deve scontare una condanna per rapina. Salvatore avrebbe potuto seguire la stessa strada, mettere a segno qualche colpo, farla franca oppure finire in galera, crescere, diventare grande e non cambiare mai mestiere, lasciandolo magari in eredità a suo figlio. Un filo di ottimismo può portarci a credere che, invece, sarebbe andato a scuola, sarebbe riuscito a sottrarsi al fascino del guadagno facile, sarebbe riuscito magari a laurearsi e a diventare un dottore o un ingegnere. Alla sua storia era assegnato, però, un finale diverso, quello peggiore. Volare via senza nemmeno avere il tempo di rendersi conto di quello che accadeva davvero. Senza avere la possibilità di scegliere, di cambiare gli schemi con un colpo di coda.
L’avventura di Thomas non è molto diversa. Anche in casa sua manca la figura di un padre. Nato in Galles, la mamma l’ha riportato a Napoli quando aveva appena tre mesi e ha dovuto tirarlo su da sola, nel bel mezzo di un quartiere che definire difficile sarebbe un eufemismo. A diciassette anni, qui, si è già adulti e, quando c’è la stoffa, si può essere già il punto di riferimento di un gruppo. Nel bene e nel male.
Amici o complici? Amici e complici. Quattro anni di differenza possono diventare un abisso tra i banchi di scuola, non sono niente quando la vita si consuma in strada. Sull’asse mediano, mentre Salvatore quasi non respirava più, Thomas avrebbe potuto saltare sul motorino – la ferita alla spalla non era grave – e scappare via, lontano lontano. Non lo ha fatto.È rimasto dov’era, aspettando che passasse qualcuno, che qualcuno potesse soccorrerre il suo piccolo compagno morente, e nel frattempo ha cercato pure di toglierlo dall’impiccio, ha inventato la storia della tentata rapina a suo danno, ha cercato di far sparire il ciclomotore per far credere che fosse stato rubato. Salvatore se ne andava e Thomas lo ha visto andarsene, ha vissuto ogni singolo istante (chissà quanto saranno durati quei pochi minuti) di una straziante agonia. Ha pensato, forse: «Poteva succedere a me». Adesso è in ospedale, in stato di fermo, la spalla che fa tanto male, negli occhi il destino atroce toccato in sorte a Salvatore. Un giorno tornerà a casa. E, forse, sarà capace di riappropriarsi della sua vita. Quella che è giusto vivere a diciassette anni.
p.p.




La rabbia dei familiari: poliziotti picchiati


Urla, pianti, insulti, propositi di vendetta e accuse alle forze dell’ordine. L’atmosfera è tesissima. La bretella di Melito, all’altezza dello svincolo Mugnano-Scampia è bloccata da una folla di parenti ed amici di Salvatore. Un vero e proprio esercito le cui fila si ingrossano minuto dopo minuto fino a diventare un gruppo di almeno cento persone. A tenerli sotto controllo, a fatica, una ventina di agenti di polizia e carabinieri costretti, a un certo punto, a chiedere rinforzi.
Scene di disperazione autentica, ma anche aggressioni vere e proprie al cordone di agenti che impedisce a tutti, parenti, amici, giornalisti e curiosi, di avvicinarsi al corpo del ragazzo, celato da una coperta marrone. «Assassini, siete degli assassini», urlano rivolti agli agenti delle forze dell’ordine. «Avete ucciso un bambino», ripetono. «Se avesse avuto 20 anni, avrei capito. Il poliziotto allora avrebbe avuto ragione, chi gli diceva niente. In quel caso si sarebbe solo difeso, ma così no! Quest’è stato un omicidio, l’omicidio di un ragazzo», ripete una donna che dice di essere una zia del ragazzo. «Te l’avevo detto io di andare a scuola, te l’avevo detto io», dice, piangendo un uomo, forse il fratello del papà di Salvatore, detenuto nel carcere di Lodi per rapina. «Vi trovate di fronte un bambino e che fate, gli sparate? No, non si fa così. Era disarmato, era un bambino. Non si uccide così. Stava scappando, perché gli ha sparato?». Altri parenti del ragazzo sono meno misurati. Uno, che qualcuno indica come un cugino di Salvatore, arriva poco dopo urlando propositi di vendetta. Si avvicina minaccioso al codone di agenti e sferra un paio di schiaffi ad un poliziotto. «Lo faccio a pezzi, lo uccido. Deve morire», giura, mentre altri parenti lo portano via. Poco dopo arriva uno dei fratelli del ragazzo. «Dove sta, fatemelo vedere. È mio fratello, dovete farmi passare». Si allontana di qualche passo, poi torna indietro e tenta di superare lo sbarramento della polizia. «Mi dovete far passare. È un bambino. Lo avete fatto morire per terra. Toglietelo da lì, toglietelo da terra».
Intanto la folla di amici e parenti continua ad ingrossarsi. La tensione è alle stelle. Un agente di polizia tenta di impedire ad alcune persone di scavalcare il guard-rail, di passare da una corsia all’altra della bretella. Lo aggrediscono in cinque, costringendo altri agenti ad intervenire. Torna la calma, ma dura solo pochi istanti. Il parente del ragazzo che aveva minacciato “vendetta” tenta di aggredire nuovamente l’agente, ma viene fermato da altri familiari. Poco dopo è una ragazza, la cugina di Salvatore, ad inveire contro la polizia. Il gruppo insiste sull’assenza dell’arma, quella che i due ragazzi avrebbero usato nel tentativo di rapina. Qualche minuto dopo, gli agenti della scientifica sollevano un indumento di Salvatore, inzuppato di sangue, per fotografarlo, uno mostra un foro agli altri, probabilmente quello di entrata del proiettile. La reazione dei parenti è furiosa. Volano altri schiaffi. Gli agenti non reagiscono, tentano di far calare la tensione. Alcuni poliziotti ed un carabiniere, in abiti civili, prendono sotto braccio i più scalmanati e tentano di farli ragionare. Poi arriva il carro funebre, la salma viene rimossa, i parenti si allontanano, qualcuno seguirà il feretro fino all’obitorio del cimitero dove stamane verrà eseguita l’autopsia. «Dite la verità, li avevate fermati perché non avevano il casco. Non c’è stata nessuna rapina – urla la madre di Salvatore prima di venir trascinata via dai parenti – dov’è la pistola? Gli hanno sparato a sangue freddo».

ANTONIO POZIELLO





LO STRAZIO E LE IMPRECAZIONI DELLA DONNA: «FIGLIO MIO, DIMMI CHI È STATO…»


La mamma: assassini, me lo avete ammazzato




«Salvatò, dimmi chi è stato, fammelo sapere. Voglio sapere chi è che ti ha ucciso. Figlio mio, figlio mio. Tenevi solo tredici anni». È piegata sul corpo del figlio la giovane mamma di Salvatore, il suo è un lamento disperato. Si muove a scatti. Il viso rigato dalle lacrime. La donna è circondata da una folla di parenti ed amici, accorsi sul luogo dove il ragazzino si è accasciato morente.
«Me l’avete ucciso, assassini. Ditemi chi è stato che gli strappo il cuore, lo faccio a pezzi» urla all’improvviso la mamma di Salvatore alzandosi dal corpo del figlio, raggiunto dopo aver forzato il cordone di poliziotti e carabinieri che impediva agli altri familiari del baby-rapinatore di avvicinarsi al cadavere su cui gli agenti della scientifica avevano appena terminato di eseguire i rilievi del caso. Avevano provato, alcuni agenti, a fermare la donna, ma lei era riuscita a raggiungere il figlio per un ultimo disperato abbraccio. In tanti hanno tentato di calmarla, anche gli stessi agenti di polizia che poco prima erano stati aggrediti da altri familiari del ragazzo. Inutilmentre. La donna non riesce a darsi pace per la tragedia consumatasi pochi minuti prima, a due passi da casa.
«Mio figlio aveva solo tredici anni, era un bambino. Con quale coraggio l’avete ucciso? Ditemi, chi è stato? Fatemelo vedere questo assassino. Voglio sapere chi è stato e perché l’ha fatto. Era disarmato mio figlio, era un bambino, perché quel maledetto ha sparato. Che motivo c’era? Non aveva nessuna pistola, mio figlio. Era disarmato, non c’era bisogno di sparargli…».
Poi arriva il carro mortuario comunale scortato dalla polizia, il magistrato incaricato di coordinare le indagini ha appena disposto la rimoszione del cadavere, anche la donna è costretta a lasciare il luogo del delitto. Sono i suoi stessi parenti a portarla via, a caricarla in macchina, a condurla lontano dal luogo in cui il suo figliolo ha cessato di vivere a soli tredici anni dopo aver tentato una rapina a un poliziotto.
a.p.




IL COMMENTO – QUELLE PERIFERIE





di ELIO SCRIBANI

Trafitti da schegge di cronaca paradossale, ci chiediamo come sia possibile che un bambino tenti una rapina e lasci la vita in un vialone di periferia. Insomma: è davvero questa la storia di Salvatore? O, piuttosto, quel ragazzino ha solo prestato il proprio sangue alla storia della sua famiglia, del suo quartiere e della sua città? Per scegliere, bisogna essere assolutamente liberi. Salvatore non lo era. E non ha scelto di diventare un rapinatore. Ha solo seguito la strada che gli si è presentata davanti come quella naturale. Forse anche l’unica strada praticabile. È morto ammazzato. Avrà compiuto altri passi prima di farsi ammazzare. Segni chiari. Forse anche spettacolari. Chi doveva coglierli, ha fatto finta di niente. Nessuno ha voluto capire. E i miti e gli idoli del suo mondo di orrori l’hanno tenuto prigioniero.
A scuola, semmai c’era stato con la mente oltre che con il corpo, Salvatore non deve aver trovato valide ragioni che potessero sostituirsi o anche soltanto opporsi ai valori che gli fiorivano intorno fuori dell’orario di lezione. Ogni giorno. A ogni ora. Dovunque si guardasse intorno. Semplicemente: non c’erano valori alternativi. Il fatto è che se ti mettono a guardia di un’istituzione di frontiera e ti lasciano solo, rischi anche tu di mollare missioni e vocazioni. Impari a tirare a campare. E chi si vuole perdere, si perda. Dove cercare altri valori? Non certo nel comportamento di chi gli stava accanto, non tra gli amichetti, meno che meno tra i compagni del rione con cui Salvatore divideva le serate e i pomeriggi rubati alla sua stessa infanzia. Quale scenario gli stava intorno? L’abbiamo raccontato e l’avete letto mille volte nella cronaca di ogni giorno in quelle periferie.
Nessuno si offenda. A Scampia può anche non esserci nulla che non rischi di diventare una lingua dell’inferno. Se non ti difendi, morirai dannato. E un bambino non sa difendersi. Nessuno si offenda. Se laviamo il suo sangue, nessun altro può sentirsi davvero innocente. Nei bar, agli incroci o nei vialoni dove gli automobilisti di passaggio corrono sperando che la macchina non si fermi per un accidente, gli argomenti preferiti restano la camorra e i camorristi. Inutile negare. Un bambino che non faccia, come altrove, una vita tutta casa, scuola e corsi di inglese e di danza, si abbevera a queste fontane. Anche più di chi è già cresciuto, perché quella è l’età che ti dà sete di modelli. In periferia si cresce più in fretta che altrove. E c’è un maledetto bisogno di qualcuno da imitare, qualcuno in cui credere, qualcuno che ti faccia sentire più grande di quello che sei.
La camorra sembra fatta apposta per questo. Il boss è uno che incute rispetto solo con uno sguardo. Forza fisica e armi cromate. Lui è un uomo ricco. Guida auto belle e potenti. Gli altri delinquenti della zona sono tutti ai suoi ordini. È un grand’uomo. Dimmi: che altro c’è in giro? Tutt’altra prospettiva. C’è uno, mettiamo, che si ammazza di fatica da mattina a sera, porta a casa una miseria di stipendio, abbassa gli occhi incontrando qualunque bullo del rione, è schiavo della propria vita. È uno che ha paura. Lo Stato non c’è. O, se c’è, non fa abbastanza rumore da attirare la fantasia dei bambini. Ti pare, piuttosto, che i crimini non vengano puniti. E che cos’è, un crimine? La droga si vende liberamente. Si spara e si uccide. Se qualcuno sbaglia, ne risponderà solo a un padrino di camorra. Se va in galera, ne uscirà presto e tornerà più forte di prima. È come se gli avessero detto: che cosa scegli, Salvatore? Vuoi essere forte o debole? Vuoi comandare o obbedire? Vuoi essere ricco o povero? Salvatore è diventato un rapinatore. Nessuno, però, gli aveva mostrato altre strade. Tranne un poliziotto. Gli ha sparato in petto, ma non gli ha dato il tempo di imparare la lezione.





IL MATTINO 5 GENNAIO 2002 – pagg. 2 e 3

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