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venerdì, Aprile 19, 2024
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Accusato di essere un prestanome del boss Mallardo, restituiti i beni all’imprenditore Capriello

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Era finito sotto processo con l’accusa di essere un prestanome del clan Mallardo e ora, dopo avere incassato l’assoluzione in primo e secondo grado, a distanza di ben sette anni da quella triste vicenda, l’imprenditore Domenico Capriello si è visto restituire tutti i beni che all’epoca gli erano stati sequestrati. L’inchiesta della DDA, denominata “caffè macchiato” risale al 2014.

Fece molto scalpore all’epoca perché assestò un duro colpo al clan del boss Feliciano Mallardo. Ieri, la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Napoli, ha messo la parola fine al calvario di Capriello disponendo la confisca di parte dei beni sequestrati durante il blitz ma anche la restituzione di quelli che gli furono tolti. “Non ho mai smesso di sperare in questo giorno, – dice tra le lacrime l’imprenditore – pregando sempre che i giudici del Tribunale Misure di Prevenzione, come già avevano fatto assolvendomi quelli di primo e secondo grado da tutti i reati con la formula più ampia possibile, potessero comprendere la assoluta, piena ed indiscutibile titolarità delle mie società delle quali ho sempre curato in prima persona affari ed interessi. Adesso voglio guardare oltre, riprendere a lavorare e fare tutto ciò che non ho potuto fare in questi anni, perché bloccato da un provvedimento che ancora oggi non so spiegarmi”.

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SI VALUTA IL RISARCIMENTO DOPO L’INCUBO

Capriello nonostante l’incubo in cui era precipitato nutre ancora fiducia nel futuro e spera in una ripartenza che ovviamente la pandemia rende ancora più complicata. “Valuteremo – commenta l’avvocato Damiano de Rosa – la possibilità di chiedere il risarcimento, anche davanti agli Organi di Giustizia Europea: è assurdo che oggi una persona possa vedere per oltre sei anni disposto il blocco dei propri beni, pur in presenza di due provvedimenti assolutori pieni ed incontrovertibili e nonostante le varie istanze che sin dall’inizio documentavano l’assoluta inconsistenza della tesi accusatoria”. (ANSA).

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