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Strage in tabaccheria, cancellato l’ergastolo al boss Petriccione

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Un ergastolo cancellato e due conferme. Questa la decisione presa poco fa dalla Corte d’Assise d’Appello di Napoli (V sezione) per Salvatore Petriccione che ha visto la sua condanna al carcere a vita ridotta a trent’anni con concessione delle attenuanti generiche e con l’esclusione della premeditazione in riferimento dell’omicidio di Domenico Riccio e dell’innocente Salvatore Gagliardi uccisi in tabaccheria a Melito nel novembre 2004. Petriccione in secondo grado aveva ammesso gli addebiti, linea difensiva che ha dunque premiato il lavoro dei suoi legali, gli avvocati Annalisa Senese e Domenico Dello Iacono. Confermato invece gli ergastoli per Ciro Di Lauro e Giovanni Cortese.

Contro i tre le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Massimo Molino che ha descritto le fasi che portarono all’uccisione di Riccio, indicato come soggetto vicino agli Abbinante: Molino ha puntato il dito sui diversi componenti del commando e tirando in ballo anche suo cognato, Maurizio Maione (che non risulta indagato). Le sue dichiarazioni sono allegate all’ordinanza di custodia cautelare che nel marzo dello scorso anno portò in carcere Ciro Di Lauro, figlio del boss Paolo, Salvatore Petriccione, Giovanni Cortese e Ciro Barretta come indagato.

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Le dichiarazioni di Massimo Molino

«Un giorno ’o marenaro ci mandò l’imbasciata che si doveva uccidere questo Mimmo Riccio, che aveva una tabaccheria a Melito. In quel periodo non ci si fidava di nessuno e mio cognato Maurizio Maione decise di andare personalmente da Ciro Di Lauro per avere conferma. Ciro Di Lauro confermò e in più ci disse che se ce ne fosse stata possibilità si dovevano uccidere anche la moglie di Rito Calzone e la moglie di Genny “’o Mckay” (Gennaro Marino). Mimmo Riccio doveva morire perché, disse Ciro Di Lauro riciclava e investiva i soldi di Raffaele Amato». Molino poi entra nello specifico ricordando anche un escamotage utilizzato per non destare sospetti:«Rosario Di Bello giunse all’improvviso e ci venne a dire che c’era Mimmo Riccio. D’istinto Maurizio, che non era in programma che partecipasse, cambiò idea e disse che voleva andare, pur non avendo il casco. Così partirono Maurizio Maione – a volto scoperto – o marenaro, Pasquale Malavita e Cicciotto, che guidava la macchina (la Fiesta). Maurizio e Pasquale Malavita erano seduti dietro, il marenaro a fianco del guidatore».

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