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Riina contesta l’arresto: non firmo

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Quell’ordinanza neppure l’ha voluta leggere, l’ha presa tra le mani e l’ha gettata in aria. Non firmo – urla il padrino dei Corleonesi Totò Riina – non firmo, in questa storia non c’entro. Mastica amaro e sibila parole di rabbia contro chi gli notifica l’ultimo provvedimento cautelare (anticipato ieri dal «Mattino»), lasciandosi andare a un commento avvelenato: contro di me c’è una strategia politica. È la reazione del capo dei capi, l’uomo condannato all’ergastolo per le stragi di mafia dei primi anni Novanta, in cui persero la vita, tra gli altri, i magistrati Falcone e Borsellino. Chiuso nel carcere milanese di Opera, fiaccato da anni di reclusione al carcere duro, si lascia andare a un commento tra i denti, che non sfugge ai presenti: è un fatto politico, contro di me una strategia politica. Dopo l’arresto di Bernardo Provenzano e di Salvatore Lo Piccolo, il nome del padrino resta al centro delle attività inquirenti. La sua notorietà va al di là delle aule di giustizia. E investe anche il grande pubblico che ha seguito nelle ultime settimane in tv la saga del «capo dei capi». Venerdì scorso, il boss stragista ha compiuto 77 anni e da ieri deve rispondere di altri fatti di sangue. Non di un omicidio soltanto, ma di cinque delitti consumati a Marano, il 19 settembre del 1984, quando bastarono pochi minuti per sciogliere nell’acido i corpi di cinque persone, quelli di Vittorio e Luigi Vastarella (rispettivamente padre e figlio), Gennaro Salvi, Gaetano Di Costanzo e Antonio Mauriello. Una carneficina costata l’ergastolo per il boss maranese Angelo Nuvoletta e i killer Giovanni Brusca, il «chimico» di Cosa nostra esperto nella liquefazione dei cadaveri nell’acido solforico, e per Luigi Baccante. L’ultimo ordine di cattura lo firma il gip napoletano Paola Scandone, al termine delle indagini del pm della Dda di Napoli Paolo Itri. Gli è stato notificato dal nucleo operativo del comando provinciale di Napoli, guidato dal colonnello Gaetano Maruccia. La guerra di mafia dei primi anni Ottanta in Sicilia si trasferì in Campania, è l’accusa del pm. Vide il gruppo dei corleonesi di Riina-Provenzano-Liggio strappare a colpi di morti e vendette la leadership di «cosa nostra» ai palermitani dei Bontate-Badalamenti-Riccobono. Accanto a Riina, il gruppo di Angelo Nuvoletta e Valentino Gionta, mentre il cartello di Alfieri e Bardellino sostenne l’altro schieramento. Ora, dopo le indagini iniziate negli anni Novanta dal pm Giuseppe Borrelli, almeno 13 pentiti accusano Riina. Ha spiegato Giovanni Brusca: «Avevamo la certezza dei collegamenti tra i cosiddetti ”scappati” e la frangia della camorra napoletana che faceva capo a Antonio Bardellino». In un interrogatorio dello scorso settembre, Brusca ha accusato Riina e anche Antonino Madonia (per il quale il gip ha respinto gli arresti) come mandanti del «lavoro» napoletano. Furono usati cento litri di acido e mentre Brusca immergeva il capo delle vittime nell’acido, c’era chi, come Valentino Gionta, si rivoltava dalla nausea. Fu allora che iniziò la partita per l’attacco alle istituzioni dello stato democratico.






Cassate, pesche e pallottole scambio di doni tra padrini

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Tredici pentiti accusano Totò Riina. E ricostruiscono l’alleanza tra i Nuvoletta e i corleonesi. L’obiettivo era eliminare gli «scappati», le famiglie palermitane fuggite in America, costrette a cementare rapporti di alleanza in Campania per non perdere contatti con il vecchio continente. Tra mafia e camorra ci furono legami di sangue, spesso anche cementati da omaggi enogastronomici. Pesche sciroppate, conserve di pomodori, cassate e cannoli siciliani. Vino rosso. A parlarne è Enzo Brusca in un interrogatorio del 24 settembre scorso. Il pentito parla della stretta alleanza tra i Corleonesi e la famiglia Nuvoletta la quale era «in guerra con altri gruppi della camorra napoletana, autori dell’omicidio del fratello di Lorenzo Nuvoletta». Pertanto «Riina premeva sui suoi alleati napoletani perché spazzassero via i comuni nemici. Nuvoletta però, forse per questioni di carattere strategico, era piuttosto restio ad affrontare il problema con la necessaria fermezza». Riina però si lamentava che i napoletani non erano determinati nell’annientamento dei nemici. «Tale circostanza – spiega Enzo Brusca – provocò un raffreddamento. In passato ricordo che i Nuvoletta ci mandavano una volta all’anno conserve di pomodori e pesche sciroppate, mentre noi gli mandavano i nostri prodotti, successivamente non vidi arrivare più niente». Riina a Poggiovallesana era di casa. Durante la sua latitanza, il capo dei capi veniva ospitato in una casa nei pressi dell’ippodromo. Un altro motivo di contrasto tra Riina e Bardellino fu il rifiuto opposto dal padrino di San Cipriano d’Aversa ad ammazzare Tommaso Buscetta in Brasile. A rivelarlo è il pentito Raffaele Ferrara. Bardellino disse che Buscetta era un galantuomo e che pertanto non poteva ammazzarlo». Per questa ragione «Salvatore Riina aveva chiesto a Nuvoletta la testa di Antonio Bardellino. Nuvoletta incaricò di compiere l’omicidio Raffaele Ferrara, vecchio contrabbandiere: quest’ultimo oppose un secondo rifiuto. Raffaele Ferrara fu ucciso dai Vastarella su ordine di Nuvoletta, che poi fece in modo di accusare i Vastarella di doppiogiochismo». Furono attirati così nella trappola: si presentarono con abiti eleganti, ben nascosti sotto tute da lavoro. Vittorio e Luigi Vastarella erano convinti di meritare la cerimonia dell’affiliazione, la puntura e il bacio del santino, ma furono stritolati e sciolti nell’acido dopo una strenua resistenza.




LEANDRO DEL GAUDIO – IL MATTINO 21 NOVEMBRE 2007

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