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Messaggio al boss pentito, ucciso il padre

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Ha udito il rumore dell’auto che si avvicinava lenta, facendosi strada nel viale sterrato che porta alla masseria. C’era già luce, alle sei e mezza di ieri mattina: prime lame di sole su quella casa colonica di contrada Bortolotto, a Castelvolturno. Umberto Bidognetti era appena arrivato da Casal di Principe, i cani della fattoria gli scodinzolavano intorno. Dalla macchina sono scese almeno tre persone, le pistole già in pugno. Solo allora deve aver capito. Tredici colpi in rapida successione. Una pioggia di fuoco per abbattere il padre del pentito Domenico Bidognetti, un tempo personaggio di spicco del clan dei Casalesi. Oggi è un collaboratore di giustizia. Una vendetta. La dimostrazione che la camorra casalese non dimentica e tantomeno perdona. È morto così, Umberto Bidognetti, 69 anni, una vita senza precedenti penali; la sua unica «colpa» era quella di aver messo al mondo un figlio segnato dal marchio del pentimento, che per i codici criminali è sinonimo di infamia. Questa volta i killer del commando (almeno tre le persone che hanno sparato, ma è facile presumere che altri uomini agissero in appoggio e copertura in zona) hanno infierito con particolare ferocia, utilizzando pistole 9×21 e 7,65, riservando l’ultimo colpo – in pieno viso – ad un calibro devastante, quello di una 44 Magnum. I primi a dare l’allarme sono due tunisini, operai che lavorano nell’azienda bufalina gestita da Bidognetti . Dormivano ancora, al primo piano della casa colonica, quando si è udito il crepitio delle armi; ed era troppo tardi quando sono scesi nel deposito di mangimi che i camorristi avevano trasformato in mattatoio. Restavano solo un corpo senza vita, un lago di sangue e il rombo di quello stesso motore che si allontanava, facendo volare l’auto dei sicari. Umberto Bidognetti era un bersaglio fin troppo facile. Lo zio del famigerato boss Francesco( detto Cicciotto ’e mezzanotte) non aveva voluto aderire al programma di protezione che lo Stato gli aveva offerto nel momento in cui suo figlio ne era entrato a far parte. La masseria, poi, era il luogo ideale per portare a termine quella missione di morte. Sul posto polizia e carabinieri. Da Napoli giungono anche due magistrati della Direzione distrettuale antimafia: Raffaello Falcone e Marco Del Gaudio. La percezione della gravità di questo omicidio è immediatamente chiara. E si consolida ulteriormente quando nell’azienda agricola di contrada Bortolotto fanno la loro comparsa la moglie e la figlia della vittima. Lo strazio trova un facile sfogo nella maledizione che alcuni di loro lanciano a «Mimì», ai loro occhi colpevole di un pentimento che non ha portato altro che vergogna e lutto per tutta la famiglia. Rincara la dose una donna bionda di mezza età: «Infame, ecco che cosa succede metre continui a farti la tua vita con le tue puttane». Ed ancora: «Si sono presi la vita nostra, questi bastardi…». Frasi feroci e insulti. Quasi una replica diretta (e in qualche modo anche meditata) ad altre parole di fuoco, quelle che lo stesso Mimì Bidognetti volle affidare – con una lettera spedita ad un altro magistrato antimafia, Giovanni Conzo – ai ragazzi di Casal di Principe. Le quattro pagine culminavano in un messaggio chiaro. «I mafiosi del nostro paese solo questo sanno fare: minacciare le persone buone, brave, oneste. Ma vi posso assicurare che loro, i mafiosi, sono solo dei buffoni quando nessuno li denuncia».

Giuseppe Crimaldi






Piano contro Bidognetti per evitare che si arrenda



Sono là, forti come prima, compatti come forse non sono mai stati. Uniti dall’obiettivo comune, quello di rispondere allo Stato – ai processi, alle condanne, alle confische – e a chi tradisce il giuramento di sangue, abbandonando la camorra. Uniti anche dalla necessità di impedire nuove defezioni, soprattutto quelle pesanti, quelle dei capi. Capi come Francesco Bidognetti che, alla vigilia della sentenza di appello del processo Spartacus, potrebbe accarezzare l’idea di un pentimento, salvacondotto dall’ergastolo. Tredici colpi di pistola, un omicidio nel quale si leggono tre chiarissimi messaggi. Il primo è anche quello più immediato: Umberto Bidognetti è il padre di un importante collaboratore di giustizia, Domenico, fino a settembre uomo chiave del clan dei Casalesi, killer affidabilissimo al quale fu affidato, nel 1996, il compito di eseguire le sole vendette trasversali compiute dai Casalesi contro i pentiti. Fu lui a guidare il commando che uccise Aldo De Simone, fratello di Dario, e Rodolfo Previdente, giovanissimo cognato del collaboratore. Per una sorta di nemesi, Mimì Bidognetti è stata punita con la stessa arma, la più odiosa. Il secondo messaggio è rivolto, invece, allo stesso Francesco Bidognetti, in carcere dal 1993, isolato da una parte della famiglia che ha scelto la strada della collaborazione, fantasma del camorrista che fu, senza più esercito ma con notevole carisma che continua a esercitare soprattutto nelle carceri. Al nipote che, in aula, aveva detto di essersi pentito per timore che il clan uccidesse i suoi figli ancora ragazzini, aveva replicato: «Stesse tranquillo, mio nipote. I suoi figli sono figli miei». È l’uomo che da trent’anni frequenta le strade di camorra e i piani alti del clan, consigliere di Bardellino prima, alter ego di Schiavone-Sandokan poi. È l’uomo dai mille segreti, detentore della pietra angolare – i nomi dei complici importanti, i luoghi dove sono riposte le ricchezze – che potrebbe far crollare l’impero casalese con una sola parola. La donna che è stata la sua compagna per oltre un quarto di secolo, Anna Carrino, lo sa bene. Una settimana fa, dalle telecamere della Rai, l’aveva invitato a seguirlo nel pentimento: «La camorra non paga, è destinata a essere sconfitta dallo Stato». Nulla lascia sospettare che l’ex compagno avesse intenzione di assecondarla, dal carcere non arrivano messaggi di sorta. Ma le precauzioni non sono mai troppe, l’altolà andava imposto con le armi, sacrificando un parente stretto, un uomo al quale Francesco Bidognetti era legato da un solido legame di affetto. Esiste, però, un’altra possibilità, e cioè che il boss – che ha firmato la richiesta di legittima suspicione del processo Spartacus assieme ad Antonio Iovine – si sia prestato ad assecondare il piano omicidiario: per mandare all’esterno un segnale di compattezza contro lo Stato e di forza non indebolita dai tradimenti familiari. Un sacrificio necessario, quello della morte dello zio, per il bene del clan. È stata la stessa Carrino a ricordare come più volte, a Casale, padri e fratelli abbiano trascinato i propri cari, condannandoli, nelle faide interne. Il terzo messaggio è quello più subdolo e pericoloso, indirizzato a tutti gli affiliati. Secondo un copione svelato tre anni fa da un altro collaboratore di giustizia – Luigi Diana, ex bidognettiano passato nel gruppo Schiavone qualche tempo prima – dalle carceri si premeva con insistenza sui capi, soprattutto sui latitanti Michele Zagaria e Antonio Iovine, perché venissero puniti coloro che avevano reso possibili i processi e le condanne: i collaboratori di giustizia e i loro familiari, i magistrati che avevano sostenuto l’accusa. La scorta raddoppiata ai pm Federico Cafiero de Raho e Raffaele Cantone e ai giudici del processo Spartacus fu imposta subito dopo. Spiegò Diana che, per procedere con le vendette, era stato deciso di aspettare la sentenza. A quella di appello manca meno di un mese.

Rosaria Capacchione



il mattino 3 maggio 2008

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