Questa Corte condanna di nuovo. Per i boss della più potente organizzazione criminale della Campania oggi il carcere a vita fa più paura di ieri. Nulla di definitivo – c’è ancora la Cassazione – ma Spartacus da ieri mattina vince anche in appello: trenta condanne, sedici ergastoli confermati. Qualche rideterminazione che non colpisce l’impianto inquirente. Carcere a vita per tutti i boss di «gomorra», responsabili di una lunga scia di sangue iniziata vent’anni fa con l’omicidio di Antonio Bardellino. Aula bunker, carcere di Poggioreale. Undici telecamere (alcune tv straniere), decine di giornalisti accreditati per il giorno del giudizio. Alla sbarra la camorra casertana, quella delle imprese al Nord, degli investimenti nel ground zero di Manhattan, degli ecoreati e delle grandi aziende di calcestruzzo. Centinaia di flash per l’ingresso di Roberto Saviano, autore del best seller che ha reso globale un’emergenza nostrana, che ha raccontato al mondo il male di un’intera regione. Entra circondato da carabinieri in borghese, con tanto di giubbotto antiproiettile, si siede accanto a fotografi e giornalisti. Mezzogiorno passato, ecco la Corte. La prima assise d’appello, presidente Raimondo Romeres, (a latere Maria Rosaria Caturano e il giudice Domenico Zeuli), poi entrano le fasce tricolori dei giudici popolari. C’è la pubblica accusa a rimarcare l’importanza di un momento solenne. Il pg Francesco Iacone non è solo. Accanto a lui, una rappresentanza di inquirenti della Dda di Napoli. Il Capo Franco Roberti – titolare di inchieste contro i casalesi che risalgono alla fine degli anni Ottanta, poi almeno tre generazioni di pm: Federico Cafiero de Raho, che sostenne l’accusa nel corso del primo grado di giudizio (assieme a Lucio Di Pietro, Francesco Greco e Carlo Visconti), poi Antonello Ardituro, Marco Del Gaudio e Catello Maresca, alcuni pm del pool anticasalesi composto anche da Pino Amodeo, Giovanni Conzo, Raffaello Falcone, Cesare Sirignano e fino a un anno fa anche dall’attuale giudice di Cassazione Raffaele Cantone. La Corte dà inizio alla lunga rideterminazione delle condanne. In sintesi, un verdetto chiude il cerchio attorno ai boss. Francesco «Sandokan» Schiavone incassa sette ergastoli per ben dieci omicidi (Antonio Bardellino, Paride Salzillo, Pasquale Piccolo, Antonio Salzillo, Michele Pardea, Pagano-Menillo-Orsi-Gagliardi, De Falco Vincenzo); Francesco Bidognetti, alias Cicciotto ’e mezzanotte, tre ergastoli per sei omicidi (Pasquale Piccolo, Pagano-Menillo-Orsi-Gagliardi, Vincenzo De Falco). Carcere a vita anche per i due superlatitanti: un ergastolo a Michele Zagaria (omicidio Vincenzo De Falco); e due ergastoli ad Antonio Iovine, (omicidi Paride Salzillo e quadruplice delitto Pagano-Menillo-Orsi-Gagliardi). Resta invece impunito l’omicidio di Giuliano Pignata, una lupara bianca per la quale ieri è stato assolto Francesco Schiavone, alias Cicciariello, cugino omonimo di Sandokan. Una lunga faida, con oltre 160 delitti, un’escalation che va avanti fino ai giorni nostri, come emerge dalla strategia stragista degli ultimi mesi. Agguati e delitti per zittire i pentiti Domenico Bidognetti e Anna Carrino, ma anche messaggi intimidatori: come la richiesta di spostamento del processo, la Cirami letta in aula dall’avvocato Michele Santonastaso e firmata dai boss Bidognetti e Iovine, scandita da passaggi minatori contro la giornalista del Mattino Rosaria Capacchione, lo scrittore Saviano e il giudice Cantone. Tre giorni e tre notti in camera di consiglio (un intero piano di un albergo del centro è stato occupato dalla Corte e dai carabinieri del comandante provinciale Gaetano Maruccia), tanto che il presidente Romeres si lascia andare a una battuta: «È stato come essere recluso, non commetterò mai un reato». Cala il sipario su Spartacus in modo pacifico, anche grazie al lavoro di polizia e carabinieri, restano due donne in aula a guardare la Corte uscire: mamma e figlia, parenti di un detenuto, quasi spaesate nel caos dopo anni di silenzio e indifferenza sul caso Casal di Principe.
LEANDRO DEL GAUDIO
Lo scenario che cambia
di
Rosaria Capacchione
Quindici ergastoli più uno, la sintesi di due sentenze diventate una sola. Conclusione univoca nei due gradi di giudizio, un’ipoteca pesante sulla verifica di legittimità che arriverà il prossimo anno. «Deus ha cancellato Gomorra con uno sputo, non ha paura dei morsi della cavalletta», scriveva Sergio Atzeni nel suo «Apologo del giudice bandito», discettando dell’inquisizione e dei suoi processi e dimostrandosi buon profeta dei fatti di casa nostra. E avvertiva: «Ma le cavallette sono tornate, più grasse di prima». E se è vero che il clan dei Casalesi è come uno sciame di insetti onnivori e perniciosi, ecco che quando la Cassazione chiuderà Spartacus, ma già da oggi, non potrà più fare a meno di fare i conti con ciò che resta del suo esercito – i capi, gli intermediari, i killer – rimodulando assetti e strategie, dichiarando la resa o cambiando definitivamente ragione sociale. L’organizzazione criminale portata alla sbarra dieci anni fa, i 136 imputati citati in giudizio dalla Dda dinanzi alla II Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, assomiglia assai poco a quella che in questi mesi ha dichiarato guerra allo Stato e ha ripreso a sparare. È l’erede, invece, di quel clan affidato alla diarchia di Francesco Schiavone e Francesco Bidognetti che aveva governato il territorio fino al 1996: stessi personaggi, stessi cognomi, ma una geografia del comando modificata in corso d’opera già in vista della sentenza di Spartacus. Schiavone-Sandokan era, a quel tempo, il capo indiscusso. La sua leadership, dicono gli investigatori, non è stata messa in discussione dalla lunga detenzione e dalla condanna all’ergastolo, confermata ieri in appello. Il suo posto nel consiglio di amministrazione è stato preso dal figlio Nicola, sostanzialmente incensurato, che gestisce i rapporti con le mafie alleate dei paesi dell’Est. La stella di Francesco Bidognetti, invece, è in declino. Detenuto da quindici anni, con la prospettiva concreta di non tornare mai più in libertà, non ha nessuno a cui affidare la sua rappresentanza: i figli di primo letto, Aniello e Raffaele, sono in carcere; la sua compagna, Anna Carrino, si è pentita, seguita a ruota – dopo un agguato – dalle sorelle che garantivano a Cicciotto una solida rete di protezione. Il suo gruppo di fuoco – Peppe Setola, Alessandro Cirillo, Emilio Di Caterino, i fratelli Vargas – si è messo al servizio dell’intero clan, protagonista del maggio di sangue. Ha due possibilità: fare quadrato con Schiavone, conservando una parvenza di quel potere che gestisce soprattutto all’interno delle carceri, o raggiungere la Carrino e pentirsi, come qualcuno sta già ipotizzando. Per ora ha dato il via libera agli omicidi, assecondando la linea dei falchi. Leggendo in controluce la sentenza, utilizzando come torcia anche i fatti più recenti, si delinea però uno scenario nuovo. Il ruolo di Antonio Iovine, per esempio, uno dei due superlatitanti. La sentenza della Corte di assise di appello ha confermato la condanna all’ergastolo, ma il suo uomo di fiducia, Corrado De Luca, l’uomo che gestiva per suo conto il ristorante romano «Il destriero», è stato assolto dall’accusa di aver partecipato all’omicidio di Enzo De Falco e condannato solo per associazione camorristica: 8 anni, già scontati a metà. De Luca è latitante, se fosse arrestato in carcere resterebbe assai poco. Fra quattro anni, pagato ogni debito con la giustizia, potrebbe servire il suo padrone al di sopra di ogni sospetto. Simile la posizione di Michele Zagaria, pure lui irreperibile da oltre dodici anni: ergastolo confermato ma un enorme potenziale da spendere. I tre fratelli, Pasquale, Antonio e Carmine, gli uomini capaci di muovere centinaia di migliaia di euro in contanti in una notte sola e di investirli sui mercati immobiliari del Nord, ora stanno scontando, e già dall’anno scorso, condanne che vanno dai tre agli otto anni. Tra qualche tempo, brevissimo rispetto alla definitività degli ergastoli, saranno liberi. E padroni di ciò che resta, con o senza l’accordo con gli eredi di Schiavone.
IL MATTINO 20 GIUGNO 2008