C’è un interessante e pungente articolo di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, dal titolo “Se la società civile scendesse in piazza” che mi ha fatto rifettere molto. Di seguito riporto alcune delle interessanti considerazioni del giornalista che mettono l’accento su uno dei mali che ci affligge e che ha contribuito molto a determinare l’assurda situazione nella quale stiamo vivendo.
«Da quindici anni, o quanti ne sono passati da quando dura il problema dei rifiuti, afflitta da quegli antichi difetti acutamente individuati da La Capria, la società civile napoletana, quell’ambiente borghese fatto di professionisti, professori, imprenditori, giornalisti, magistrati, è stato silente, e quindi complice, degli errori inanellati dalla classe politica. Quella società civile non può fingere di non avere responsabilità possedendo essa le risorse culturali ed economiche che avrebbero potuto metterla in grado di esercitare un’influenza positiva, se solo lo avesse voluto».
Come dare torto a Panebianco. E la cosa che maggiormente mi fa riflettere, e con la quale sono decisamente d’accordo, è quando si pone l’accento sulla volontà: “se solo avesse voluto”. Spesso si sentono sermoni ad opera di personalità di spicco e, in teoria, rispettabili ma raramente si nota una presa di posizione, uno schierarsi. Sembra sempre che non ci si sbilanci, forse perché anche la borghesia ha le mani sporche di munnezza e ciò impedisce a chi dovrebbe indignarsi di farlo apertamente: meglio una posizione neutra.
Panebianco conclude con una semplice ma condivisibile considerazione:
«In quasi tutto il Sud, non solo a Napoli, è da sempre radicata l’idea che tocchi agli altri, al Nord ricco oppure allo Stato, «risarcire» il Sud, risolvere i problemi della società meridionale. Ma è una tragica illusione. Gli «altri», si tratti dello Stato o di qualunque altra entità, anche ammesso (e non concesso) che lo vogliano, non potrebbero comunque riuscirci. Nessuno è in grado di aiutare davvero un altro se quest’ultimo non aiuta se stesso per primo».
Quasi a voler dimostrare che la nostra ormai inarrestabile decandenza sia figlia unica di quell’assistenzialismo voluto fin dal dopo guerra, che ci ha reso subordinati inconsciamente alla forza sociale ed economica di un nord da sempre più attivo e vivo di noi. Ci sentiamo figli prediletti dello stato decentrato verso le realtà vive ed industrializzate del nord e, quasi, pretendiamo di spartire la loro ricchezza e la loro civiltà come se fosse un nostro sacrosanto diritto.
Noi, in realtà, siamo una zavorra che sta trascinando l’Italia intera a fondo e, agli occhi attenti dell’Europa, siamo quanto di più inefficiante si possa avere. Mi sento un abitante del terzo mondo… perché noi questo siamo: il terzo mondo dell’Europa.
Domenico Di Nardo
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