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L´Africa del chilometro 43 “Basta camorra, proteggeteci”

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«Basta paura, basta camorra», gridano all´inizio. La rabbia sono questi slogan urlati in italiano e altri fiumi di parole gridate nei loro idiomi africani. All´inizio sono rivendicazioni, accuse di razzismo, lacrime e occhi iniettati di sangue.
Poi arriva l´escalation di violenza, il danneggiamento di arredi e segnaletica stradale. Un vero e proprio corteo del terrore che avanza per dieci chilometri nel cuore di Castelvolturno e semina paura e devastazione, costringendo alla fuga passanti e automobilisti, prendendo anche le forze dell´ordine in contropiede, finendo quasi al corpo a corpo con polizia e carabinieri. Fino all´apparente tregua della tarda serata di ieri.
Dopo la strage di camorra contro la sartoria di africani di Castelvolturno, che giovedì sera lascia a terra una comunità di immigrati – sei uomini uccisi, un settimo resta ferito in gravi condizioni – , esplode la ribellione delle donne e degli uomini neri. È la loro risposta ai 130 colpi esplosi dalla batteria dei killer, è l´ira in cui sfocia il loro senso di impotenza dinanzi a quel sangue versato, e all´immagine degli assassini che fuggono sparando in aria le ultime raffiche di kalashnikov.
Le ventiquattro ore più lunghe della Statale domitiana cominciano alle 21 di giovedì e terminano alle 20 di ieri. È al 43esimo chilometro, dinanzi all´insegna di “Ob Ob exotic fashion” l´epicentro dell´odio: in questa terra di nessuno, posta esattamente al confine tra le province di Napoli e Caserta, dove quotidianamente si ritrovano centinaia di immigrati africani intorno ad una serie di esercizi commerciali gestiti dai connazionali. È lì che arriva il commando di killer. Vengono uccisi Kwuawu Samuele, del Togo; i fratelli Antwi Julius e Eric Affum Yebolah, ghanesi; i due liberiani Cristopher Adams e Alex Geemes. La sesta vittima dell´agguato non è ancora stata identificata con certezza. Mentre resta ferito, in gravi condizioni, il ghanese Joseph Aymboura.
In segno di lutto, ieri mattina, si ferma ogni commercio di africani nel raggio di cento metri, lecito e illecito. Le auto dei connazionali morti diventano ideali “trampolini” della rivolta. Qualche africano le rovescia, altri ci salgono sopra e li usano come un palchetto. Il corteo di manifestati blocca la Statale domitiana per otto ore. In strada scendono uomini del Togo, del Ghana, della Nigeria, della Liberia. E guai a fare distinguo sulle etnìe e sulle inclinazioni a delinquere di alcuni gruppi presenti sul territorio. Prime avvisaglie della violenza si hanno quando un giovane ghanese grida ad alcuni taccuini dei cronisti: «Noi non siamo nigeriani, noi non facciamo droga». Si ribellano altri africani, gli uomini arrivano alle mani. Volano schiaffi, insulti. La rabbia viene di nuovo arginata, ma non per molto.
Alle 15 parte il corteo improvvisato. Un´ora dopo, quegli immigrati stanno già devastando arredi, cassonetti, segnali stradali. Tra i manifestanti ci sono africani che hanno un lavoro e un permesso di soggiorno, altre decine di immigrati vivono invece di espedienti, e mescolati tra loro c´è anche chi porta i segni di vecchi o recenti agguati, ragazzi che ti mostrano una schiena o una gamba segnata dai proiettili. Accusano la «magistratura inesistente, che non ci ha mai reso giustizia». Se la prendono con i poliziotti «perché se chiamiamo il 113, neanche ci considerano». Contestano ai media di aver descritto come spacciatori e criminali le «vittime innocenti» della strage.
Joseph è un ragazzo di 33 anni, del Congo. Fa il muratore, da 5 anni in Italia. «Oggi non sono andato a lavorare perché è il giorno della preghiera per i musulmani. Qui ci colpiscono come fossimo bestie. Vedi, toccami qui, vicino al mento». Joseph mostra un pallino di un fucile conficcato nel volto e uno nel cuoio capelluto. «Mi hanno sparato senza motivo a Giugliano, due anni fa, solo perché sono nero. Mi sono anche rivolto alla polizia, inutilmente, nessun rispetto. Cercano solo droga. Dicono che siamo spacciatori». Invece mostra mani che non hanno paura dei controlli. «Sono quelle di un muratore».
Un italiano che ha un´attività economica a poche centinaia di metri dal luogo del massacro e che vuol restare anonimo, racconta di essere vittima di estorsione e offre l´ennesimo riscontro alla tesi dei magistrati. Il suo sfogo è emblematico: «Anche a me sono venuti a chiedere il pizzo. Non lo avevano mai fatto. Stanno facendo terra bruciata. Ma lo hanno detto: chiunque si ribella diventa cadavere. Sì, qui si spaccia, eccome. Anche se non so dire se a vendere la roba siano i neri o gli italiani, oppure gli africani. Ma quelli della sartoria non c´entrano. La guerra è cominciata perché i Casalesi hanno chiesto il 50 per cento del ricavato della vendita di droga. Al momento prendono il 20 per cento. Di fronte al rifiuto, hanno sparato per dare una lezione. Ma quei ghanesi della sartoria presa di mira non c´entrano niente. Penso che anch´io toglierò le tende, non ho altra scelta. Chiuderò la mia attività».


Scritto da Conchita Sannino e Raffaele Sardo da la Repubblica Napoli, 20-09-2008

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