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venerdì, Giugno 28, 2024
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RITORNO A CASAL DI PRINCIPE

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La giornata della legalità. Viaggio nella terra del parroco ucciso dalla camorra

Dieci anni fa l’omicidio di Don Peppe Diana. «Qui non è cambiato nulla». Oggi a Casal di Principe (Ce), i clan dettano legge. Come sempre.




di UGO FERRERO e RAFFAELE LUPOLI *




CASAL DI PRINCIPE (CE).
Faceva freddo quel 19 marzo di dieci anni fa. Don Giuseppe Diana si apprestava a dire messa nella sua parrocchia di San Nicola, a Casal di Principe, comune di 20mila abitanti in provincia di Caserta. Erano da poco passate le sette e mezzo del giorno del suo onomastico, quando un sicario entrò in sagrestia e lo uccise. Quattro colpi di pistola esplosi in rapida successione. Il parroco cadde all’istante sul pavimento del corridoio che lo avrebbe portato all’altare: gli abiti talari macchiati di sangue, lo sgomento delle poche persone presenti in chiesa e dei conoscenti accorsi. Don Giuseppe, Peppino per i fedeli e gli amici, era un punto di riferimento per la lotta alla criminalità organizzata. Insieme ad altri sei sacerdoti dell’agro aversano, aveva deciso di schierarsi, di «fare dell’omelia domenicale una denuncia», di firmare un appello («Per amore del mio popolo», del dicembre 1991) contro il clima di violenza che i clan avevano instaurato in Terra di Lavoro.
Fin dal giorno dei suoi funerali un’immagine è stata spesso associata al martirio di don Peppino: quella del seme che morendo genera nuovi frutti. «E per qualche anno questo germoglio è spuntato», spiega Nicola Alfiero, l’edicolante di San Cipriano d’Aversa amico di don Peppino, uno dei pochi che non ha mai smesso di battersi contro lo strapotere della camorra. «Oltre 20mila persone parteciparono ai funerali di don Peppe. In tanti, a partire dai politici locali poi eletti alla Camera o al Senato, tentarono di cavalcare quei momenti. Oggi tutto è rientrato nella normalità». Una normalità che fa paura, che incute terrore, dove le realtà produttive diminuiscono, non c’è possibilità di crescita, la camorra la fa da padrona e i clan si sono moltiplicati. «Diciamocelo chiaramente – commenta Alfiero – a nessuno interessa la liberazione di questo territorio».



Meno violenza, più pericoli


«Qui si spara, si fugge e nessuno vede», titola l’edizione casertana de Il Mattino esposta in edicola, a commento dell’ennesimo agguato. È il “benvenuto” di Casal di Principe, dieci anni dopo l’assassinio di don Diana. Strade e piazze si assomigliano tutte in questo regno di clan e malgoverno. «Camorra imperan-te, ambiente violato, sviluppo negato, informazione marcia»: sintetico ma efficace il ritratto che traccia di questa terra Renato Natale, 50 anni, medico generico di Casal di Principe. Era sindaco della cittadina quel 19 marzo del 1994, alla guida di una coalizione di centrosinistra eletta nel dicembre del ’93 e naufragata neppure un anno dopo, nel novembre del ’94. Poi dieci anni di maggioranze traballanti e scioglimenti anticipati. Natale si è ripresentato alle elezioni amministrative del 2003, ma è stato sconfitto da Francesco Goglia, attuale primo cittadino, di Forza Italia.
«Inizialmente ci sono stati i grandi blitz, i pentiti e un forte calo delle capacità di incidenza dei clan», racconta Natale, oggi alla guida del comitato che ha organizzato una serie di eventi per il decennale della morte di don Peppe (il programma è disponibile su www.dongiuseppediana.it). «Negli ultimi anni, invece, la magistratura ha avuto parecchie difficoltà nel portare a termine i processi – riprende l’ex sindaco – Diminuzione delle risorse e degli uomini hanno inciso non poco e ora la criminalità organizzata è nuova-mente forte. È cambiata di sicuro nei suoi quadri dirigenti, nelle sue modalità di intervento: meno violente, meno plateali, ma non per questo meno pericolose». E l’11 febbraio scorso, a conclusione della tre giorni casertana della Commissione antimafia, il presidente dell’organismo parlamentare, Roberto Centaro, ha confermato la necessità di un rinnovato intervento dello Stato: «L’impegno incessante di magistrati e forze dell’ordine non basta. Hanno bisogno di rinforzi». Una necessità ribadita dall’esito dell’operazione svolta dai carabinieri il 9 febbraio scorso, che si è conclusa con 37 ordinanze di custodia cautelare nell’ambito di una inchiesta condotta dalla Dda di Napoli sulle attività dei “liternesi”. Sono 28 gli arresti di esponenti di questo clan, che fa capo alla famiglia Tavoletta, considerato articolazione del clan dei casalesi. Le indagini hanno consentito anche di sventare un piano ideato per uccidere, con l’utilizzo di una finta auto della polizia, un esponente di un clan rivale. Ma soprattutto hanno messo in evidenza «la capacità dell’associa-zione – sottolinea una nota della Procura della Repubblica di Napoli – di mantenere contatti, di infiltrarsi in ambienti politico-amministrativi locali». Gli inquirenti, che parlano anche di «contatti finalizzati allo scambio reciproco di favori clientelari-elettorali», hanno riscontrato «a livello di amministrazione comunale di Villa Literno, la capacità dell’organizzazione di manipolare l’intera struttura amministrativa locale fino ad ottenere che, a spese della comunità, fosse prolungato e modificato il sistema dell’illumina-zione pubblica cittadina in modo tale da consentire, ad uno dei capi dell’organizzazione di ottenere che più lampioni, non previsti in nessuna delibera comunale, fossero impiantati ad esclusivo vantaggio della sua abitazione».



Prigionieri nella roccaforte


In buona parte della provincia di Caserta, recita la relazione sul primo semestre 2003 della Direzione investigativa antimafia, «è presente, in posizione di assoluta supremazia, il clan camorristico denominato dei “casalesi”, originario del comune di Casal di Principe, che ne costituisce storicamente la roccaforte, e nel cui territorio vive la maggior parte degli affiliati».
Niente di nuovo per chi da sempre vive in questi luoghi come un prigioniero in patria. «È un fenomeno che non riguarda solo Casal di Principe. Anche San Cipriano d’Aversa, Casapesenna, Villa Literno e Villa di Briano subiscono la presenza opprimente dei clan, che hanno diramazioni anche nel basso Lazio, opera nel resto del paese e anche all’estero», spiega Gianni Solino. Sindacalista Cgil, negli anni Novanta era uno dei numerosi volontari dell’associazione “Scuola di pace”, impegnata con iniziative culturali e di forma-zione a diffondere i valori della legalità e della tolleranza. «Una mobilitazione culminata nella marcia del 27 novembre ’97, a seguito dell’ennesima escalation di omicidi in pieno centro e in pieno giorno – racconta Solino – ma oggi certe esperienze si sono esaurite: si è chiuso un ciclo. In tanti continuano a fare del loro meglio attraverso altre forme d’impegno, o semplicemente nel lavoro e come genitori». Una piovra che ha stretto i suoi tentacoli anche attorno al collo della società civile, dunque. E che di piovra si tratti, un’organizzazione diversa e più pericolosa rispetto alla camorra tradizionale, lo confermano anche i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, secondo i quali i casalesi «mantengono caratteristiche tipicamente mafiose».
In questo quadro per molti aspetti sconfortante la speranza viene dai tanti giovani per i quali don Peppino, con la sua attenzione ai migranti, gli scout, gli anziani, l’educazione dei ragazzi, continua a rappresentare il simbolo di un cambiamento possibile. «Il cinema, il torneo di calcetto: facciamo di tutto per coinvolgere i più piccoli – dice Roberto Fusciello, 21 anni, giovanissimo portavoce della sezione locale dei Verdi – Stare nei panni degli adolescenti dell’agro aversano non è facile. È avvilente sentirli ripetere tutti la stessa frase: a Casale non si può fare niente. Ma perché? Capisco in parte la rassegnazione dei vecchi, ma quella dei giovani è inaccettabile. È per questo che non molliamo: la lotta contro i luoghi comuni e la cultura mafiosa non ci spaventa». Come non ha spaventato, almeno non fino a farla tacere, una giovane donna di 30 anni: unica fra i numerosi testimoni dell’agguato, ha rotto il muro di omertà offrendo un aiuto determi-nante per l’arresto del killer di Giuseppe Mancone, ucciso nella notte tra il 13 e il 14 agosto scorso davanti a un bar di Mondragone. «I morti ammazzati sono solo la punta di un gigantesco iceberg – dice l’onorevole Lorenzo Diana, diessino, originario di San Cipriano d’Aversa e componente della commissio-ne parlamentare antimafia -. La verità è che ormai da tempo lo Stato ha abbassato la guardia nei confronti dei poteri criminali». Il segreto di tanto dominio risiede tutto nell’omertà. Un codice d’onore imposto all’intera popolazione: Casal di Principe è il paese dove, dal 1990 ad oggi, sono state uccise oltre 200 persone senza che nessuno abbia visto o sentito.
All’indifferenza e al disinteresse diffusi, Rino di Bona, 26 anni, studente in Scienze politiche e coordinato-re del circolo Legambiente di Casal di Principe, risponde con i fatti: «Siamo partiti con le sole attività di carattere ambientale per poi passare ai corsi di giornalismo e a un progetto di legalità nelle scuole. Abbiamo anche contribuito a realizzare un cortometraggio dedicato a don Peppe. Certo, se con le nostre attività fossimo alla ricerca di un riscontro continuo nell’opinione pubblica, non concluderemmo mai nulla. A Casal di Principe è opportuno adottare un atteggiamento fatalista. Come diceva Sakarov – conclude amaro – “fai quel che devi fare e sarà quel che sarà”».



Terra di ecomafia


Protetti da una pax mafiosa che impone perfino il divieto di spacciare droga nell’hinterland (chi vuole procurarsela va a Secondigliano), gli affari dei casalesi vanno a gonfie vele. Da buoni investitori i clan diversificano le attività. Dalle numerose inchieste sulle attività del clan emergono diversi filoni: dal controllo della produzione del calcestruzzo alle numerose frodi nel settore cerealicolo (gli investigatori hanno scoperto che venivano percepiti ingenti contributi per produzioni inesistenti e coltivazioni fantasma, collocate in centri urbani o località boschive, piccoli laghi, spiagge e giardini pubblici), fino all’eliminazione della concorrenza nel commercio delle carni attraverso l’obbligo per le macellerie di acquistare solo dalle società controllate dai casalesi. Ma l’attività storica dei clan è ovviamente il racket. I primi giorni di febbraio, i carabinieri del Comando provinciale di Caserta hanno arrestato, in due distinte operazioni dieci persone, sette delle quali ritenute legate al clan dei casalesi. Facevano parte di una organizzazione accusata di taglieggiare commercianti e imprenditori tra Capua, Pastorano e Santa Maria Capua Vetere (in provincia di Caserta). Fra gli arrestati vi è anche Vincenzo Schiavone, detto «’o petillo», di 26 anni, di Casal di Principe, nipote di Francesco Schiavone, meglio noto come «Sandokan», che gli investigatori ritengono ancora il capo dell’organizzazione. Insieme con altri sei pregiudicati, tutti ritenuti fiancheggiatori del clan, operante sia in provincia di Caserta sia nel basso Lazio Francesco Schiavone aveva minacciato imprenditori di Pastorano, Vitulazio e Calvi Risorta intimando loro di mettersi in contatto con l’organizzazione per il pagamento di tangenti.
Poi c’è il mattone che, si sa, è sempre una sicurezza. E allora eccoli impegnati a estrarre cemento dalle cave abusive, alimentando il mattone illegale, assicurandosi il riciclaggio di denaro sporco e l’infilatrazio-ne negli appalti pubblici. A Casapesenna, ad esempio, l’abusivismo edilizio diventa, uno dei punti di forza dell’amministrazione mafiosa del territorio. La nota con cui il prefetto di Caserta il 14 settembre 1991 dichiarava sciolto il consiglio comunale è fin troppo eloquente: «L’abusivismo edilizio ha assunto dimen-sioni e gravità preoccupanti, ritenendosi l’investimento immobiliare e la speculazione edilizia uno dei modi di riciclaggio del denaro da parte delle locali organizzazioni camorristiche». Le costruzioni realizza-te abusivamente e non censite sarebbero centinaia. Il Comune non approva il Prg, «omette di esercitare qualsiasi compito di vigilanza, accertamento e repressione» dell’abusivismo fino a determinare situazioni davvero paradossali. In pieno centro cittadino, infatti, esponenti del clan Schiavone-Bidognetti costruisco-no illegalmente un edificio, sequestrato dai carabinieri quando è ancora allo stato di rustico. Dopo il sequestro viene emessa un’ordinanza di demolizione mai eseguita; i lavori proseguono, con la sistematica violazione dei sigilli, l’edificio viene completato e, nell’indifferenza generale, viene affittato a una banca.



L’anno della monnezza


Ma il 2003 per i casalesi è stato l’anno della “monnezza”. Solo nel novembre dello scorso anno due gigantesche operazioni di polizia hanno portato a galla una complessa rete di traffici illeciti che dai poli industriali del Nord e centro Italia portavano rifiuti di ogni genere in provincia di Caserta e altre località del Meridione. Un traffico di circa un milione di tonnellate di rifiuti pericolosi smaltiti illecitamente per anni è stato scoperto con un complessa indagine, denominata Operazione Cassiopea, che ha portato alla richiesta di 97 rinvii a giudizio da parte del pm Donato Ceglie.
L’altra operazione – denominata Re Mida perché uno dei principali indagati si è vantato, in una conversa-zione telefonica, di trasformare l’immondizia in oro – si è conclusa con l’emissione di 22 provvedimenti cautelari, il sequestro di 20 impianti e di 100 conti correnti bancari da parte della Procura di Napoli. Sotto accusa alcuni imprenditori che avrebbero organizzato un’attività di traffico illecito di rifiuti. Per 6 mesi, da febbraio 2002 a maggio 2003, 1.600 tir hanno viaggiato indisturbati dal Nord Italia al giuglianese per scaricare tonnellate di veleni nei terreni agricoli e nelle cave che dovevano essere risanate. Quarantamila tonnellate di rifiuti per un giro d’affari di oltre 3 milioni di euro, imposte evase per 500.000 euro. E ancora 20 impianti di trattamento, compostaggio, stoccaggio sequestrati in mezza Italia. A finire nelle cave o sotto terra erano, in particolare, fanghi industriali e olii minerali derivanti dalla lavorazione di idrocarburi, tutte sostanze altamente cancerogene. Fra gli arrestati anche 6 affiliati al clan casalesi. Una vicenda che ha avuto un ulteriore strascico l’11 febbraio scorso, quando tre discariche abusive sono state sequestrate tra Eboli e Battipaglia (Salerno) dai carabinieri per la tutela dell’ambiente (Noe). Oltre ai traffici illeciti di rifiuti, sono emerse anche attività estorsive da parte di esponenti della camorra casertana, che imponevano tangenti a uno degli imprenditori cui faceva capo l’illecito smaltimento.
La procedura ormai è consolidata. Alle organizzazioni criminali viene affidata, anche da imprenditori conniventi, un’ampia gamma di rifiuti: scorie di metallurgia, fanghi conciari, polveri di abbattimento fumi, terre provenienti da attività di bonifica, trasformatori con oli contaminati da Pcb, i famigerati policlorobi-fenili. Le conseguenze di questi smaltimenti sono gravissime e si manifestano nel tempo, come dimostra l’allarme diossina scattato tra le province di Caserta e Napoli. Qui per anni, i clan della camorra, a cominciare dal sodalizio più pericoloso, quello dei Casalesi, hanno gestito la fase terminale di imponenti traffici illegali di rifiuti. Le “terre dell’ecomafia” – così vennero ribattezzate dalla prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti – sono diventate oggi le “terre della diossina”, la cui presenza è stata riscontrata nel latte vaccino, sui terreni, nel foraggio. Sull’origine di questa contaminazione non sembrano esserci dubbi: «Le risultanze investigative – si legge in un comunicato della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, che coordina le indagini – hanno consentito di ipotizzare le cause dell’evento, consistenti nelle reiterate attività abusive di discarica e abbandoni dei rifiuti e dall’ince-nerimento degli stessi».



Informazione malata


Ma un altro cancro ha infestato in questi anni la provincia di Caserta: un’informazione “malata” a cui poco importa il riscatto di questa terra. «Molti giornali di Terra di Lavoro campano sui morti ammazzati, enfatizzando i fatti di cronaca nera, sguazzando nel martirio di un territorio – dice Raffaele Sardo, giornalista, direttore de Lo Spettro, testata storica dell’agro aversano che dopo una breve esperienza come quotidiano cartaceo fra il 1999 e il 2000 adesso è un magazine on line – La maggior parte dei quotidiani locali non esprime alcun valore positivo: gli articoli di fondo, le riflessioni e i commenti di più ampio respiro non trovano alcuno spazio su questo tipo di carta stampata». A scoperchiare la pentola dell’informazione inquinata è arrivata anche la magistratura. Lo scorso 11 dicembre è finito in manette Maurizio Clemente, «editore occulto», questa l’accusa della Procura, del Corriere di Caserta e Cronache di Napoli (due testate fino a quel momento in vendita con il quotidiano torinese La Stampa, che subito ha sospeso l’accordo). Con l’imprenditore nativo di Montesarchio, nel beneventano, ex assicuratore ed ex editore di Telealternativa, nonché socio dell’Eurobic (società finanziata dall’Ue per progetti imprenditoriali), è indagato in concorso il sindaco di Caserta, Luigi Falco. Clemente avrebbe promesso ad altri imprenditori e liberi professionisti di fermare le campagne diffamatorie avviate nei loro confronti dalle sue testate in cambio contratti pubblicitari che le finanziassero.
Nel tritacarne dell’editore attualmente recluso a Torino, era finito anche don Peppino Diana. «Il Corriere di Caserta ha sostenuto dopo la sua morte una campagna di stampa ingiuriosa e metodica nei suoi confronti – spiega Sardo – Basta pensare al titolo a tutta pagina con il quale il quotidiano aprì l’edizione del 28 marzo 2003. Fra virgolette era scritto “Don Peppe era camorrista”, estrapolando e travisando una frase pronunciata da un avvocato». E questo non è stato l’unico “attentato” post mortem alla figura del parroco anti-camorra. «Altre volte – aggiunge Renato Natale – il Corriere aveva scritto delle “donne di don Peppe” e di “omicidio d’onore”: si tratta di raid meschini perpetuati da una stampa malata che per vendere qualche copia in più, nelle terre di camorra, non ha scrupoli a falsificare la realtà e a diffondere notizie prive di qualsiasi fondamento». Secondo Donato Ceglie, sostituto procuratore di Santa Maria Capua Vetere, da anni impegnato contro i traffici dell’ecomafia, il Corriere di Caserta «diffondeva notizie false su don Peppino Diana per screditare tutto un movimento attraverso il suo simbolo: un’operazione criminale, condotta in maniera scientifica allo scopo di demolire con menzogne e accuse la figura di un martire della legalità». Ma Ceglie sottolinea che le sentenze del Tribunale e della Corte d’Appello, consacrando la pista dell’omicidio come reazione all’impegno di don Diana contro la camorra, hanno messo una pietra tombale su una vicenda che ha fatto trascorrere 10 anni tremendi a familiari e amici. Dieci anni – conclude il pm di Santa Maria Capua Vetere – in cui lo Stato, presente e partecipe ai funerali, è via via scomparso, lasciando sempre più soli i cittadini impegnati a raccogliere l’eredità di don Peppe».




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* tratto da «La Nuova Ecologia» e «Narcomafie»





gli altri link


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