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venerdì, Maggio 3, 2024
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Lo Stato, i clan e quella morte senza scorta

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CASAL DI PRINCIPE. Era considerato un tipo scomodo e morì da uomo solo. Ammazzato a colpi d’arma da fuoco, alla vigilia di un processo per racket istruito grazie alle sue denunce. Aveva 45 anni, Federico Del Prete, commerciante di vestiti e sindacalista, quando lo ammazzarono a Casal di Principe. I sicari lo affrontarono nella sede dell’associazione per conto della quale si batteva ogni giorno, incurante delle minacce sempre più esplicite, nell’intento di reagire ai soprusi della camorra. Gli spararono senza testimoni, scapparono senza lasciare tracce. Era il 18 febbraio del 2002. Solo una settimana prima Federico si era sfogato con un cronista del Mattino: «Se penso alla paura non mi muovo più. Ma ho messo nel conto che prima o poi mi uccideranno». Andò come aveva previsto e di quella morte, oltre alle frasi di circostanza, è rimasto poco o nulla. Il delitto è ancora senza colpevoli, nonostante l’impegno della magistratura e la collaborazione con la giustizia di alcuni appartenenti alla malavita organizzata di Mondragone, individuata sin dal primo momento come l’area da dove era partito l’ordine di chiudere la bocca al sindacalista. Il giudice ha appena firmato il decreto di archiviazione del procedimento avviato nei confronti di tre presunti responsabili dell’agguato. I pentiti sono stati ritenuti inattendibili. Ma nel provvedimento il magistrato chiede adesso di aprire un nuovo capitolo d’inchiesta: quello delle responsabilità di chi avrebbe dovuto proteggere Del Prete dinanzi alle intimidazioni ricevute e puntualmente segnalate agli organi competenti. Federico Del Prete aveva denunciato alla magistratura tantissimi episodi illeciti. Non si era limitato, scrive il giudice Tullio Morello, a praticare «il nobile culto della legalità». Si era spinto oltre. Aveva trasformato «nella propria missione di vita la lotta alle ingiustizie e alle prevaricazioni tipiche della zona nella quale viveva». Lo aveva fatto nell’interesse di quegli ambulanti che i clan soffocavano quotidianamente. E che lui difendeva senza nascondersi, in un territorio difficile dove l’omertà è molto spesso più forte di qualsiasi forma di indignazione. Un’attività «meritoria ma pericolosissima», evidenzia il magistrato. Perché a ogni denuncia seguiva, inevitabile, una minaccia. Un mese prima dell’omicidio, il 19 gennaio 2002, il Comitato provinciale per l’Ordine e la sicurezza pubblica di Caserta aveva assegnato al sindacalista, che viveva con la famiglia a Frattamaggiore, in provincia di Napoli e svolgeva la sua attività a Casal di Principe, la misura di protezione della vigilanza mobile radiocollegata. Non una scorta, dunque, ma una forma più lieve di tutela che non aveva impedito, solo pochi giorni più tardi, il 3 febbraio, l’incendio dell’auto di Del Prete ad opera di mani rimaste, anche quelle, sconosciute. Un’azione «evidentemente a scopo intimidatorio», afferma il giudice: il 19 febbraio, vale a dire il giorno dopo l’omicidio, il sindacalista avrebbe dovuto testimoniare nel processo contro un sottufficiale del vigili urbani che proprio Del Prete aveva fatto arrestare per estorsione aggravata dal metodo mafioso. Incastrato con una denuncia corredata anche da un’attività di intercettazione, con le microspie sistemate nella sede del sindacato, a Casal di Principe: un affronto ulteriore, per la camorra che in quelle zone non è disposta a tollerare affronti di alcun tipo, figurarsi una «infamità» del genere. «E tuttavia – rileva il gip Morello – nessuna autorità si attivava per rafforzare la misura di protezione precedentemente disposta». Una vigilanza che, rimarca il magistrato, «i fatti avevano abbondantemente e quasi immediatamente dimostrato insufficiente e che di lì a due settimane avrebbe concorso a non evitare un evento che – sottolinea il giudice – si stava delineando come prevedibile visto l’attentato subito». Alla luce di queste considerazioni, e della documentazione allegata agli atti del procedimento, il gip chiede al pubblico ministero di verificare «se vi sono gli elementi di responsabilità penale delle autorità preposte a tutelare l’incolumità» di Del Prete. Il fascicolo si trova ora all’attenzione del pm del pool anticamorra Raffaele Cantone, che dovrà esaminare le argomentazioni del giudice e decidere quali iniziative assumere. Una copia del decreto di archiviazione è stata trasmessa anche al ministero dell’Interno, al quale i familiari di Del Prete si sono rivolti per chiedere il contributo destinato dallo Stato ai parenti delle vittime di mafia e camorra. Il gip usa parole di elogio per la persona di Federico Del Prete: «Può essere definito uno dei migliori cittadini italiani, tanto esposto non nell’interesse proprio ma per quello della collettività, che invece fu lasciato solo in balia della malavita che combatteva, pur senza averne il dovere specifico, senza essere tutelato adeguatamente». Parole amare che ricordano un’altra storia e un altro delitto. L’omicidio di Marco Biagi, il giuslavorista bolognese che i servizi di sicurezza avevano individuato come potenziale bersaglio delle Brigate Rosse e dopo numerosi, inascoltati, appelli fu ucciso sotto casa, a Bologna, senza protezione alcuna. Un agguato commesso appena un mese dopo l’omicidio Del Prete. Dopo quell’assassinio fu avviata un’indagine analoga a quella sollecitata ora dal gip per l’omicidio del sindacalista napoletano. I magistrati indagarono su eventuali responsabilità da parte delle istituzioni incaricate di decidere sull’assegnazione della scorta al professore. L’inchiesta si è poi conclusa con l’archiviazione di tutte le posizioni, sia pure accompagnata da espressi rilievi sulla macchina burocratica all’epoca preposta all’adozione di misure di vigilanza. Lo scalpore suscitato dalla morte annunciata di Marco Biagi spinse il Parlamento a modificare il sistema di attribuzione della protezione ai soggetti ritenuti a rischio. Ora le scelte sono di competenza di un ufficio centrale interforze, l’Ucis, che ha sede a Roma e al quale spetta l’ultima parola. «Ma più casi come quello di Marco Biagi», si disse dopo il varo della riforma. Ma per la memoria dell’economista bolognese, come per i familiari del sindacalista napoletano, questa in fondo è solo una beffa in più.


DARIO DEL PORTO – IL MATTINO 16 LUGLIO 2005

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