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giovedì, Aprile 25, 2024
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Da eroi a vittime, a Napoli flash mob degli infermieri con palloncini rossi

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Un volo di palloncini rossi in ricordo di tutti quei sanitari del 118, medici, infermieri che per prendersi cura dei pazienti hanno contratto essi stessi il Covid-19, perdendo la vita. E poi, una serie di richieste a tutela della categoria che vanno dall’adeguamento dei salari e delle indennità al riconoscimento delle competenze specialistiche. Dalla valorizzazione dei percorsi di studi post laurea intrapresi con conseguente alla lotta al demansionamento al pari di quanto avviene in altri contesti europei.

La protesta degli infermieri a Napoli

Gli aderenti al Movimento Nazionale Infermieri, che ha referenti in tutt’Italia, Napoli compresa, avanzano le proprie rivendicazioni ben consci del decisivo ruolo nella battaglia contro la pandemia. La branca campana del gruppo, che tiene a sottolineare la propria connotazione a-politica e a-partitica, si ritrova in piazza del Plebiscito nella mattinata di lunedì, in contemporanea con oltre 30 piazze italiane, animate dagli infermieri, molti dei quali precari, con la necessità di sottolineare come quella di garantire a questa categoria sanitaria un salto di qualità dopo i mesi terribili dell’emergenza sia una necessità non più procrastinabile. Le decine di infermieri in piazza, mostrano i cartelli per rivendicare equità di trattamento e miglioramento delle condizioni lavorative del settore.

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Il messaggio della giornata

Nel messaggio letto anche in piazza del Plebiscito come così nelle altre piazze del Paese, il Movimento Nazionale Infermieri parla della categoria come della «spina dorsale imprescindibile del sistema sanitario nazionale. Abbiamo affrontato ogni emergenza sanitaria, perché fa parte del nostro lavoro. Non vogliamo più applausi dai balconi, non vogliamo essere chiamati eroi e non vogliamo le medaglie a Cavalieri d’Italia o riconoscimenti economici come premio. Non scendiamo in piazza per avere un bonus Covid ma essere riconosciuti per ciò che siamo, scendiamo in strada per i nostri diritti noi infermieri di 118, di pronto soccorso, ambulatorio, reparto, di sale operatorie, cliniche riabilitative, private». Passata la fase acuta della pandemia, è l’aggiunta, «sono ricominciate le aggressioni verbali e fisiche sulle ambulanze, pronti soccorsi e nei reparti. È stata calpestata la dignità degli infermieri, diciamo basta al mancato pensiero riformatore, siamo disillusi e traditi».

Le storie degli infermieri, Emma d’Elia

In piazza del Plebiscito i percorsi di vita e professionali degli infermieri presenti hanno il loro carattere di specificità. Emma D’Elia, 32 anni, dallo scorso 1 febbraio e poco prima dello scoppio della pandemia, lavora al Ruggi d’Aragona di Salerno dopo aver trascorso 4 anni all’ospedale di Treviglio, in provincia di Bergamo, a Pavia e a Treviso.  «Mi sono avvicinata alla mia famiglia dopo essere rientrata dal Nord, ma la paura dopo la diffusione del Covid è stata comunque tanta pur consapevole che la Campania non ha mai raggiunti i livelli di emergenza di altre regioni. Lavorando al pronto soccorso del Ruggi spesso mi domandavo: “Adesso io entro ma poi quando torno a casa? La mia famiglia la metto in pericolo’’ E anche: “Mi vesto correttamente? La svestizione è fatta in modo corretto? Il pensiero verso i miei cari c’era. All’ospedale abbiamo avuto un momento in cui sono mancati i dispositivi. Fortunatamente il nostro primario è stato il top e il materiale ci è stato poi fornito».

Il ricordo di Emma

Emma un mese fa aveva dedicato una prosa ai medici e agli infermieri intitolata “A chi…’’ che si conclude con “Onore a voi colleghi’’ riferito a medici, infermieri, Oss. Ma il lustro e più di lavoro negli ospedali del Nord è stata l’occasione per lei di stringere rapporti umani nell’ambito lavorativo. «Io ho sentito tutte le mie colleghe della sala parto dell’ospedale di Treviglio dove lavoravo e tutte mi dicevano sempre detto che si sentivano come se fossero in guerra. Tuttora rabbrividisco per quanto mi raccontavano. In quelle aree l’epidemia è stata terribile».

La storia di Paola

In piazza con gli altri infermieri c’è Paola Mangano, lavoratrice centrale operativa del 118 Ospedale del Mare. Ha le idee chiare. «Non è possibile essere retribuiti come gli operai, non siamo manovalanza. Se il nostro lavoro deve essere concepito come intellettuale, allora si deve essere pagati adeguatamente. Ho fatto 10 anni di rianimazione e terapia intensiva e quindi la mia protesta è per quello che facevo prima. Non puoi pagare un’infermiera di terapia intensiva 1500 euro al mese I rischi sono tanti e poi se vuoi dare stima ad una professione, la devi pagare». Paola nicchia invece sull’ospedale modulare Covid costruito nel parcheggio della struttura di Napoli Est. «Essendo assegnata ad un altro compito, non ho avuto neppure modo di interessarmi della vicenda». «Abbiamo responsabilità civili e penali al pari della categoria medica e siamo considerati ancora infermieri tutto fare» ricorda Tiziana Piscitelli, referente territoriale del gruppo e infermiera al Cto dal 2011 dopo esperienze, da precaria, all’ospedale San Camillo di Roma e al Meyer di Firenze.

Le parole di denuncia e speranza degli infermieri

 «Dal punto di vista organizzativo si poteva fare di più per la prevenzione della diffusione del Covid e all’inizio abbiamo lavorato senza le sufficienti condizioni di sicurezza. Indossavamo le mascherine, ma la Ffp2 è arrivata solo dopo. È ora di cambiare musica» afferma Marina Cacciapuoti, 32 enne infermiera precaria, una delle tante, attualmente in servizio presso l’Azienda Ospedaliera dei Colli. Accanto a sé il suo compagno Roberto Colonna, che fa parte di quella schiera di eroi silenziosi che hanno affrontato di petto il virus. «Ho lavorato da marzo a maggio alla rianimazione Covid al Monaldi, rianimazione ora chiusa. È stata una mia scelta contribuire in quel modo, era giusto farlo». I momenti difficili sono stati tanti, soprattutto tra la fine di marzo e l’inizio di aprile nel picco della pandemia in Campania. Roberto ammette: «In quel periodo ci chiedevamo continuamente se il Coronavirus si sarebbe fermato soltanto con l’immunità di gregge. A volte ci siamo dovuti arrangiare facendo le cose di fretta perché i pazienti aumentavano di giorno in giorno. Ecco perché la politica e le istituzioni devono ricordarsi di noi e dei nostri turni massacranti di 12 ore senza sosta».  

L’infermiere che ha sconfitto il virus

Pasquale Romano ha 46 anni e da circa 20 lavora come infermiere all’ospedale Cotugno, un’eccellenza nella cura delle malattie infettive. Lino, come tutti lo chiamano, non solo ha dovute contrastato da sanitario il Covid ma d’improvviso si è trovato dall’altra parte della barricata. «Il 30 marzo, in pieno piccoho saputo di aver contratto il Coronavirus. Probabilmente l’ho preso in reparto nel corso di alcune manovre per garantire il flusso di ossigeno. Sono stato ricoverato nella stessa area dove assistevo i pazienti, curato dai miei stessi colleghi». Lino dice di aver avuto «soltanto sintomi lievi di febbre, divenuti più pesanti proprio il ricovero, durato un mese, probabilmente dovuto alla terapia con gli antivirali. Dopodichè, sono stato in isolamento domiciliare per 14 giorni».

Gli effetti

Romano ora sta bene ma «qualche strascico non manca. Mi sento spossato, con qualche problema gastrico-intestinale. Gestire tantissimi casi in pochissimi tempo è stato destabilizzante. Il Cotugno normalmente ha 100 posti, 8 di terapia intensiva. Non sapevamo più dove portare i pazienti perché negli altri ospedali c’è stata la lentezza nell’affrontare la cosa e mi riferisco all’allestimento delle sale» afferma l’infermiere del Cotugno concludendo: «Non vogliamo essere eroi del momento, soltanto che non ci si dimentichi di noi».

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