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La storia di Napoli Centrale, quando la musica diventò rivoluzione con la Napolitan Power

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Napoli, metà anni Settanta.
Le sirene delle fabbriche si mischiano ai clacson, il mare odora di ferro, acciaio e un po’ di libertà.
L’Italia è attraversata da crisi e contestazioni, ma nei vicoli della città qualcosa ribolle più forte del Vesuvio, una musica diversa, che sta cambiando pelle e si fa voce.
Nelle cantine umide, tra amplificatori sgangherati e sogni più grandi della miseria, nasce un suono nuovo.

Non è politica da comizio — quella c’era già.
È una politica dei cuori, delle viscere, di chi non ha voce ma trova il ritmo per urlare.

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È il grido di James Senese e Franco Del Prete, due ragazzi di periferia che nel 1975 fondano Napoli Centrale e danno vita a una rivoluzione, un linguaggio nuovo per dire la città.

“Io non sono nero, sono napoletano. E questo è ancora più complicato.”

Lo diceva Senese, e in quella frase intersezionale c’era tutto: identità, orgoglio, ferita.

Essere napoletani significava — e forse significa ancora — vivere in una terra di mezzo, tra il Mediterraneo e il Bronx, tra l’Africa e l’Occidente, senza appartenere davvero a nessuno.
Il Napolitan Power nacque da lì: dalla voglia di dire noi ci siamo, con la musica, con il dialetto, con tutta la nostra verità.

Il loro suono era come un pugno sul tavolo pieno di scartoffie, con l’omino ingessato che guarda sbigottito quel gesto eclatante. 
Un colpo improvviso, capace di incrinare la compostezza — solo apparente — di un’Italia che non sapeva ancora come ascoltare Napoli.

Jazz, funk, sangue, dialetto, tutto mescolato senza chiedere permesso, con una fluidità che sembrava naturale, inevitabile.
Napoli Centrale non pensava alla musica da salotto, ma dava visibilità a quella della strada.
Parlava di fabbriche, di sfruttati, di gente stanca.
Brani come Campagna, Pensione o Ngazzate nire non erano solo canzoni, erano manifesti.
Raccontavano l’altra Napoli, quella operaia e invisibile, che non finiva mai sulle cartoline ma reggeva il mondo con le mani sporche e il cuore pulito.

Napoli Centrale, laboratorio d’avanguardia

Il gruppo nacque nei quartieri popolari del nord della città.
La formazione originaria, con Senese e Del Prete affiancati da musicisti italiani e stranieri, portava con sé una vocazione internazionale, jazzisti britannici e tastieristi americani si unirono al dialetto napoletano, in un esperimento musicale che all’epoca non aveva eguali in Italia.
In un Paese dominato dalla canzone leggera, Napoli Centrale introdusse il linguaggio della fusion, del jazz-rock, della contaminazione pura.
Era un suono meticcio come la città che lo generava, partenopeo nel cuore, ma fortemente cosmopolita.

James Senese, figlio di madre napoletana e padre afroamericano, portava in musica la propria esperienza personale di esclusione e appartenenza.
Il sax diventava la sua voce, potente ma al tempo stesso malinconica e viscerale.
Il dialetto, invece diventa strumento politico e linguaggio di denuncia.
Il jazz, fino ad allora elitario, tramutava in linguaggio popolare e la musica, fino ad allora solo evasione, diventava anche  racconto sociale.

Quel miscuglio sonoro non restò confinato a uno studio di registrazione.
Le vibrazioni di Napoli Centrale si propagarono come un’onda d’urto, dai club sotterranei ai circoli culturali, dalle università occupate ai concerti nelle periferie.

Senese e Del Prete, forse inconsapevolmente, stavano aprendo un varco.
Le loro improvvisazioni jazzistiche, intrecciate al dialetto e alla rabbia quotidiana, dimostravano che Napoli poteva essere contemporanea, internazionale e politica allo stesso tempo.
Per la prima volta, il suono della città si confrontava con quello del mondo, ma senza imitazioni, era Napoli a dettare la grammatica.

Da quella scintilla nacque qualcosa di più grande: il Napolitan Power.
Un movimento fluido, corale, capace di unire musicisti di generazioni e percorsi diversi.
Non un manifesto scritto, ma una vibrazione condivisa — un sentimento di appartenenza che attraversava sale da concerto, piazze e radio libere.

Dalle note di Napoli Centrale germogliò una scena in cui Pino Daniele, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Enzo Avitabile, Joe Amoruso trovarono la propria voce.
Ognuno con uno stile diverso, ma tutti figli della stessa intuizione: che da Napoli si potesse parlare al mondo restando se stessi.

Il Napolitan Power nasce proprio così, come un’eco che si trasforma in coro. Era la risposta di una città ferita ma viva, che imparava a raccontarsi con le proprie parole.

L’eredità dai vinili ai beat digitali

L’eredità del Napolitan Power vive oggi nei figli di quel movimento.
Da Clementino a Co’Sang, da Luchè a Geolier, quell’energia ribelle continua a scorrere nei bassi e nei rioni. Napoli continua a suonare come se non avesse scelta, per farsi sentire, per non sparire.

Ascoltare Napoli Centrale oggi fa male e bene insieme.
Male, perché ricorda un tempo in cui la città credeva di poter cambiare tutto con un microfono e un amplificatore. Bene, perché quella speranza non è mai morta, ha solo cambiato beat.
Oggi suona digitale, ma porta dentro la stessa urgenza di allora — quella di chi non chiede spazio, se lo prende.

Il Napolitan Power è questo: eredità, orgoglio e memoria attiva.
Perché a Napoli la musica non è mai stata solo musica. 
È la voce di chi, da sempre, suona per esistere.

 

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