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Le armi del clan dei Casalesi contro i magistrati

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Chissà cos’era la valanga che Francesco Schiavone preannunciava dal carcere. Chissà di quale forma e consistenza era fatto quel ciclone che rischiava di travolgere i suoi figli e che lui prevedeva di lì a poco, e che gli restituiva il polso fermo di padre e capoclan, l’autorità di ordinare la fuga dal paese.
Una nuova guerra, forse. E tanto sicuro era di quella previsione da abbandonare la prudenza e mimare, sapendo di essere inquadrato dalla telecamera della sala colloqui del carcere, il gesto di una pistola puntata alla tempia. A febbraio saranno due anni da quando il boss chiamato Sandokan, l’ergastolano che è stato il capo del cartello casalese, metteva in guardia la moglie e i maschi di casa – Ivano ed Emanuele, che erano andati a trovarlo a Opera – e li avvertiva di un gravissimo pericolo in agguato. E dava indicazioni sulla strada da seguire.

Temeva soprattutto per «Nicola e la moglie perché siamo arrivati al capolinea, siamo il simbolo indiscusso di ogni male e in pasto a quegli avvoltoi dei giornalisti», quel Nicola che di lì a pochi mesi sarà arrestato e che è tuttora in carcere, in isolamento rigidissimo. Pochi mesi dopo e la porta del carcere si apriva anche per Antonio Iovine, l’altro capo del cartello, suo alter ego, suo referente finanziario, suo uomo di collegamento con la politica che conta e con i palazzi romani della finanza e del sottogoverno. Smottamenti, più che valanghe, perché nulla questi arresti hanno cambiato e nulla di travolgente hanno provocato: non pentimenti, non il crollo dell’ultimo latitante, quel Michele Zagaria che è rimasto solo al comando, unico vincitore di una lunga guerra di posizione con i suoi compagni di camorra.
Eppure l’aria che precede le valanghe si avverte. Anche le armi trovate ieri ne sono un’avvisaglia.

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La scoperta delle armi.
Perché non è, non può essere, una coincidenza che siano state scoperte nel garage di un qualunque fiancheggiatore; che siano state trovate mentre si cercava un uomo di Michele Zagaria, Massimo Di Caterino, pure lui latitante; che abbiano disvelato, quelle armi, la pianificazione di un omicidio eccellente e di una strategia del terrore alla quale il clan, evidentemente, non ha mai rinunciato.

La scoperta ha l’intrinseco sapore di un avvertimento, sapere che il mitragliatore anti-carro e il fucile di altissima precisione erano stati murati nel garage di via Bembo pochissimi mesi fa provoca allarme e preoccupazione. E immaginare che di nascondigli così ve ne siamo molti altri non aiuta a rasserenare gli animi. Anche perché non solo non è affatto chiaro chi potrebbe essere l’obiettivo (gli obiettivi?) dell’attentato, ma neppure a chi possa giovare. Alle carceri in subbuglio per gli stipendi che non arrivano più, senza dubbio, ma Michele Zagaria ha già dimostrato di non essere capo di grande emotività e la rabbia dei suoi uomini da sola non è causa scatenante delle sue azioni militari.


Un magistrato, si ipotizza, il destinatario.

Un uomo simbolo, che ha provocato danni irreparabili all’organizzazione ma soprattutto al capo Michele Zagaria. Qualcuno, dunque, che ha determinato l’arresto e la condanna dei suoi uomini più fidati, dell’anziano padre Nicola, del fratello Carmine che teneva i collegamenti con l’altro fratello, Pasquale, mente imprenditoriale della famiglia. Qualcuno che ha sequestrato i beni, che ha ipotecato terre e case prim’ancora che la sentenza diventi irrevocabile chiedendo l’immediata riscossione delle spese di giustizia.

Qualcuno che sta disvelando i rapporti ambigui, irriferibili, tra la camorra casalese e pezzi di apparati istituzionali che gli hanno garantito la sostanziale impunità in cambio dell’ordinata gestione dell’emergenza rifiuti. Qualcuno che ha individuato i suoi referenti politici più vicini, ai quali ha finanziato campagne elettorali e occasioni di lavoro da promettere in cambio di voti. Una dozzina di persone, dunque. Tutte più o meno protette, tutte più o meno destinatarie di dispositivi di tutela che prevedono l’uso di auto blindate.

Tutte in balia delle restrizioni di cassa che hanno limitato – è storia dei giorni scorsi, e che solo da poche ore si sta avviando a soluzione – proprio l’impiego di quei dispositivi, con l’auto messa a disposizione solo in alcune fasce orarie. Una debolezza del sistema-Stato che Michele Zagaria ben conosce. E che, si è scoperto ieri, utilizzerà a suo vantaggio quando deciderà che è arrivato il momento di farlo. Ed è per questo che la sua cattura, troppo a lungo attesa, è diventata indifferibile.


Rosaria Capacchione

Il Mattino il 13/11/2011

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