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sabato, Maggio 11, 2024
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NAPOLETANI
ILLUSTRI E DIMENTICATI NEL CIMITERO DEL DISORDINE

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NAPOLI. Davanti alla tomba di Libero Bovio un papà che si chiama Maurizio si ferma con Marcello e Ludovica. Vedete, dice, questo è un poeta. I fiori, gialli e rosa, accostati con il disordine della spontaneità, lasciano a malapena leggere la scritta in corsivo che occupa intera la lapide e dice: “Addio a Maria. Salutammella Napule pe’ me, dille ca è stata a passione mia. Dille ca l’aggio amata quanto a te”. I ragazzetti leggono un dialetto che non conoscono più, il padre spiega che anche questo, tra cipressi e lapidi spezzate, è un pizzico di storia. Non sono venuti apposta, ci si sono trovati per caso nel viaggio della memoria che li ha portati alla tomba di famiglia, ma chissà mai che proprio attraverso i morti non si ricomponga l’orgoglio spesso mortificato di un’appartenenza, e anche per questo solo valga la pena di fermarsi. Ma non sono in tanti a farlo: i più passano via veloci, il mazzetto destinato a chissà chi, l’aria distratta degli appuntamenti obbligati. E chi si dedica a una tomba che non è della sua famiglia lo fa per difendere un ricordo o una privatissima felicità legati a un verso, a un quadro, a un momento della storia.
Sarà che la morte rende tutti uguali, ma è un’avventura arrivare al viale degli uomini illustri, specie se il malcapitato visitatore sceglie il percorso minore, dall’alto verso il basso, entrando da Santa Maria del pianto, e magari scegliendo la porticina che misteriosamente immette prima su un cortile e da questo a un percorso perimetrale. Qui il Monumentale si offre nel suo aspetto peggiore: tombe che furono bellissime divorate dai roveti, lapidi sbeccate, portoni rovinosi di cappelle che sembrano chiusi per l’eternità su storie di famiglie estinte, cappelle spalancate con sedie e inginocchiatoi coperti da una crosta di polvere, nicchiai dove le lastre sono scomparse e lasciano intravedere l’interno di sepolture ignote dove tutto si è sfarinato. E tra un sepolcro e l’altro, cassonetti troppo piccoli per contenere l’onda dei fiori marci, e i segni della inciviltà di chi abbandona le bottiglie di plastica che sono servite per portare l’acqua ai vasi, le sedie per far compagnia ai morti, persino i cartelli che indicavano i viali e valevano almeno a orientarsi.
Pretendere una mappa per sapere chi sia sepolto fra gli illustri è forse troppo. Ma ci fosse almeno una indicazione per arrivarci. Invece bisogna chiedere all’infinito, scegliendo ad istinto fra gli uomini che chiacchierano sui viali e forse sono operai, forse no, avessero, se non una divisa, almeno un distintivo. E le indicazioni sono sempre cortesi, ma spesso strampalate e ti inducono ad andare e venire finché non trovi chi si ricorda dov’è la tomba di Bovio, che non si trova proprio nel “recinto”, ma quasi, svolti a destra ed è arrivata.
Il “recinto” quest’anno sembra un’oasi felice. Ne sa qualcosa l’ingegnere Domenico Mallardo, che ha l’abitudine di passare ogni 2 novembre e ha verificato che per la prima volta, a sua memoria, sono state tolte tutte le erbacce, sono stati piantati ciclamini e crisantemi e l’insieme ha assunto l’aspetto di pacata serenità che gli compete. Il sindaco Iervolino è venuta con gli assessori Caputi, Esposito e Tecce per una visita ai 150 che dormono qui dopo aver ben lavorato per la città e si è soffermata davanti al sarcofago di Giovanni Amendola, che riuscì a sottrarre la vita ma non la scritta della sua tomba al gusto littorio, e ha deposto una corona d’alloro sulla sepoltura di Enrico De Nicola, che però riposa nella cappella di famiglia, lontano dal quadrilatero consacrato agli illustri.
Un’ora dopo sono soprattutto uomini, e d’una certa età, quelli che passeggiano assorti fra le tombe scorrendo i nomi famosi sulle lapidi: da Carlo Pisacane a Raffaele Viviani, da Arturo Labriola a Francesco De Sanctis, da Ferdinando Palasciano a E. A. Mario, da Luigi Settembrini a Bertrando Spaventa, da Saverio Mercadante a Salvatore Di Giacomo fino a Benedetto Croce, magistrato, a cui il più celebre nipote, storico e filosofo, volle dedicare un cippo. La folla “verace” dei napoletani non è qui: sta a guerreggiare davanti alla tomba del principe De Curtis. O a mendicare un miracolo da Raffaele Liberatore, letterato. Tanto è chiassosa la scena qui, tanto è quieta nel “recinto”. Fin troppo. E quando si approssima l’ora del pranzo, segnata da una campanella che gracchia chissà dove, meglio allontanarsi senza troppi complimenti: chiudono le congreghe, i viali restano incustoditi. E riecheggia minaccioso nell’aria il racconto di un custode: «Stavo qui la mattina alle 7,30, quando si sono affacciati due tipi. “Vogliamo una nicchia”. A quest’ora, dico. Avevo un coltello per tagliare i fiori e l’ho tirato fuori. Se ne sono andati». Le aggressioni sono un fatto. E di vigili, a parte uno che scorrazza per un istante in moto, non se ne vedono affatto.

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