PUBBLICITÀ
HomeAttualità e Società«LO CUNTO DE LI CUNTI», UNA MUSA SEGRETA PER BASILECosì il poeta...

«LO CUNTO DE LI CUNTI», UNA MUSA SEGRETA PER BASILE
Così il poeta che governò Giugliano scoprì la forza del dialetto

PUBBLICITÀ


GIUGLIANO. Quando la luce declinava e bisognava accendere i lumi anche solo per riuscire a restare soli in una stanza, Giambattista Basile era preso da un’inquietudine che lo soffocava. Adesso era stato nominato governatore di Aversa, era un poeta e un cortigiano stimato, non aveva più difficoltà economiche: e allora perché con lo scendere del crepuscolo la malinconia lo coglieva a tradimento come un ladro nella notte? Guardò fuori, ma tirava un vento senza direzione che strappava gli stracci di dosso ai contadini che sprofondavano nel fango, e il buio si spalmava su tutte le cose. Da anni, Giambattista Basile era insoddisfatto di sé e di tutti. Perché mai aveva scritto quelle orribili poesie petrarchesche? Ora era diventato bravo a tornire sonetti, a strappare ancora una goccia di ritmo alla lingua usurata dei madrigali, e i versi gli uscivano meno faticosi di un tempo: e poi? Non era quello che aveva voluto, no, no! Qualcosa lo strinse alla gola facendogli quasi mancare il respiro, e dovette sedersi. Quanto tempo aveva sprecato a organizzare feste di corte, sciarade, spettacoli barocchi! E ora si sentiva il piombo della malinconia nelle vene, Saturno si era installato nelle sua vita e lo teneva in pugno, e si sentiva vecchissimo. «Piccerillo mio! Me siente?» La voce lo colse alle spalle facendolo sobbalzare. Chi era? «Nenni’, songh’io! Te si’ già scurdate ’e me?» A un tratto fu investito da un battere selvaggio, cadenzato, ossessivo. Una mano batteva sulla pelle tesa di una tammorra, cupa, con colpi feroci e festosi che gli risuonavano fin dentro lo stomaco. Si girò di scatto, ma nella luce vacillante dei candelieri non vide nessuno, solo ombre folte che si addensavano intorno a lui. Una tammorra! Da dove veniva? «E che cosa te ne importa, picceri’?» La voce ora era vicinissima, e lui rabbrividì. Era la sua nutrice! Ma doveva essere morta da tempo, polvere e cenere in una cassa putrida, in un tempo lontanissimo… «Nutrice, sei tu?» Di colpo Giambattista Basile non aveva più paura, voleva sapere. Uno spettro? E che importava! «Songh’io, piccerillo, sono io…» «”Ma come stai?» «E come devo stare, picceri’? Sto bbona, sto da quell’altra parte, dove non si patisce più…». «Ma ti posso abbracciare, nutrice?» «No, picceri’, non puoi farlo: o mi dissolverei, come il fumo…». «Nutrice… Io… Io ti…». Ma la nutrice fece un gesto con la mano, come per farlo tacere, e Basile si arrestò. Il tempo era poco, disse la vecchia, fra poco avrebbero cantato i galli, e lei sarebbe tornata dove tutto è silenzio. Laggiù non si sentivano tammorre e voci e nacchere, laggiù il sonno nero che dà l’oblio era la sola consolazione concessa. «Mammà, ma io…». «Shhh! Statte zitto, picceri’, io ’o ssaccio già che me vuo’ dìcere…». E la vecchia cominciò a parlare. La sua voce si levava e si abbassava come un animale dalla fitta pelliccia che si stira, scatta imprevisto, ricade nel sonno sbadigliando. In sottofondo, simile alla marea che romba nelle grandi conchiglie carnose dal ventre rosa, si sentiva una musica sfrenata e singhiozzante, di piedi battuti sulla terra, di pelli percosse e di voci strascicate: una lamentazione funebre, un’orgia feroce, un pianto d’amore, una danza nuziale, uno zampettare ubriaco di animali? La marea saliva e scendeva, a volte fioca come un’eco, altre frastornante fino a sommergere la voce della nutrice. Ma cosa diceva, la vecchia? In che lingua parlava? All’accademico Basile sembrò all’inizio solo un balbettare e strascicare infantile, una voce roca e terrosa, incomprensibile come il verso di un uccello notturno. Poi il ritmo cullante lo afferrò nelle viscere, si tradusse nelle parole della sua lingua, si confuse alla sua voce. «È venuta l’ora, piccerillo! Tu devi fare quello che ti è toccato in sorte, tu devi dare la parola a chi non ce l’ha… Come puoi fare? Figlio mio! Non sono io che devo dire questo a un poeta… Te le ricordi? Ne hai viste a migliaia, a Giugliano, a Napoli, a Montemarano: andavano con la schiena rotta a raccogliere le mele, a ammassare il grano, a abbeverare le vacche… Non parlavano, picceri’? E che tengono da dire a quelli che cantano nei madrigali le fronde e i rivi e gli augelletti? Niente, picceri’, niente… Ma tu lo sai che loro raccontano i cunti, i cunti dove la vita e la morte sono sorelle, i cunti dove i morti risorgono e i poveri si fanno il bagno nell’oro e nel miele, i cunti delle femmine che parlano senza parlare e tu sprofondi in un pozzo morbido, e rinasci ogni volta che quella voce bassa e roca e cantilenante ti chiama come se avesse dentro le voci dell’acqua, delle gatte, dei sogni, del legno, del latte… Picceri’, tu li hai sentiti, quei cunti! Ammore mio, io ’o ssaccio che tu nun te si’ scurdato niente: e come ti puoi scordare il sangue che tieni in corpo, picceri’?… Ma ora tu li devi raccontare, quei cunti, i cunti dei piccerille, i cunti che cominciano quando scende la sera e non finiscono mai. Come devi fare? Tu devi solo scrivere! Tu non le devi imitare, quelle voci là, perché nessuno le può imitare: tu devi stare a sentire dentro le viscere che cosa ti dicono, e poi devi inventare… In che lingua, dici? Nella lingua mia, picceri’: la lingua dei morti che compaiono ai vivi, la lingua delle feste di cuccagna, la lingua dei pianti che ti spezzano dentro al cuore. E mettici pure la Terra e l’Aria, il Fuoco e l’Acqua, e il sangue che si scioglie e si coagula, la melanconia e la furia, le perle e la monnezza… La lingua del popolo? Non è mai esistita, picceri’! La lingua è di chi la scrive, è il suo sangue, il suo respiro, il suo corpo: e cambia, muore, rinasce con lui… Tu scrivi, scrivi! Lascia stare gli studiosi, lascia perdere i filologi, lascia dire ai mentecatti: tu scrivi per salvarti, scrivi per salvare quelli che non scrivono e accoglierli dentro di te,scrivi perché il rumore delle tammorre ti atterrisce e ti affascina, scrivi perché se non scrivi muori, figlio caro… Ti metti paura? E tu la devi tenere, la paura! Devi tenere paura perché la notte è scura e ci compaiono le ianare e gli assassini, devi piangere perché tu mangi fino alla nausea e a fianco a te seppelliscono le criature che sono morte di nausea perché non hanno potuto mangiare, devi piangere perché l’ingiustizia fa diventare malvagi i ricchi e imbruttisce i poveri, devi piangere perché la carne si devasta nella vecchiaia, e geme perché vorrebbe essere amata ancora… Ma tu devi pure ridere! Tu devi ridere assai! Tu devi ridere fino a quando la festa è finita e le lacrime ti scendono in bocca e sanno di sale, e devi ridere sguaiato, bavoso, storto: come Popa, e Antonella, e Meneca, e Tolla, e Cecca, e Ciulla, e Paola, e Ciommetella, e Iacova: e come Zeza, la mamma e la figlia, la zoccola e la madonna, la nera e la bianca… Come dici? No, io non posso restare, sta venendo l’alba che rischiara il giorno per i vivi e mi butta nel buio. Tu pensa solo alla musica, e a niente più. È una musica muta, sta sotto, in fondo, è carne che brucia, è dolore di figlio, è sudore d’amore, è terra che ti mangia, è pazzia che ti piglia: non te la scordare!… È venuta l’ora, picceri’, nun ce sta cchiù tiempo! Devi cominciare, devi raccontare il tuo cunto, ora, ora che il braciere è freddo, ora che l’inchiostro è gelato, ora che sei quasi morto. La senti, la musica? La senti?» Nella stanza il buio si è rotto in luci livide, l’urlo trafiggente del gallo lacera l’aria, le prime strie d’oro lampeggiano sui muri. Giambattista Basile ha freddo, ha sonno, è stanco, ma la musica lo ha invaso, se la sente nelle ossa, nella testa, non può dormire, non può dimenticare, deve scrivere: e Lo Cunto de li Cunti comincia…



GIUSEPPE MONTESANO – IL MATTINO 29 DICEMBRE 2005

PUBBLICITÀ
PUBBLICITÀ
PUBBLICITÀ