La povertà ha molte dimensioni – economica, lavorativa, abitativa, familiare, sanitaria e psicologica – e non ha cause né soluzioni semplici. I dati Caritas lo confermano, ma ciò non significa arrendersi né frammentare le risposte pubbliche. Occorre invece partire da alcuni punti fermi emersi dal monitoraggio Caritas: l’obiettivo è mettere le persone in grado di plasmare il proprio destino (libertà positiva) combinando sostegno economico immediato e servizi di accompagnamento in un unico percorso di
inclusione.
Assegno di Inclusione: criteri familiari di accesso e nuovi esclusi
Una delle strade percorribili per ridurre gli stanziamenti sulla povertà avrebbe potuto essere quella di indirizzare maggiormente il sostegno pubblico verso i più deboli, incrementando la percentuale di poveri tra i beneficiari della misura pubblica e correggendo così i limiti del Reddito di Cittadinanza nella capacità di raggiungere gli ultimi. In altre parole, si sarebbe potuto modificare la misura con un intervento verticale, cioè concentrando le risorse verso i più poveri; al contrario, si è scelto un approccio orizzontale, che ha ristretto la platea con criteri categoriali (presenza di figli minori, di persone con disabilità e non
autosufficienza, over 67 anni), indipendentemente dal livello di povertà e lasciando così nuclei fragili scoperti.
Riduzione dei beneficiari
Come effetto si è avuta la drastica riduzione della platea di beneficiari del 40-47%, che non si è tradotta in un miglior indirizzamento delle risorse economiche verso i più fragili fra i fragili. A essere maggiormente penalizzati dalla riforma sono le famiglie in età da lavoro senza figli minori, i lavoratori poveri, gli stranieri e chi vive nel Centro-Nord. Si tratta spesso di segmenti già molto deboli del tessuto sociale e, in questi casi, l’esclusione dal beneficio può tradursi in un aumento delle famiglie effettivamente in povertà che
restano senza sostegno.
Le famiglie vulnerabili escluse
Al tempo stesso, i criteri categoriali adottati non sembrano ridurre in modo
significativo l’accesso da parte di famiglie non povere. In altre parole, alcune famiglie vulnerabili restano escluse, mentre altre, non necessariamente povere, riescono comunque a ricevere il sussidio. L’intenzione di riservare alle famiglie con responsabilità di cura una protezione particolare, in ragione delle loro specificità, è condivisibile ma non può ledere il diritto di ognuno a ricevere un aiuto da parte dello Stato, indipendentemente da caratteristiche anagrafiche, familiari o di altro tipo. Inoltre, si conferma, come già accadeva con il RDC, una forte discrepanza tra la distribuzione geografica dei poveri e quella dei beneficiari: nel Nord si trova oggi il 41% delle famiglie povere assolute, ma solo il
15% delle famiglie che ricevono l’ADI.
“Unico paese senza un reddito per i poveri”
Nel 2024, con l’attivazione dell’ADI, l’Italia è diventata l’unico Paese europeo senza una misura di reddito minimo rivolta a tutti i poveri in quanto tali e non solo ad alcune categorie, come le famiglie con figli o senza componenti occupabili. Si è passati, in sintesi, dal principio dell’universalismo (aiutare tutti i poveri) a quello della categorialità familiare (aiutare solo alcuni poveri, individuati in base alle caratteristiche della loro famiglia).
Il mancato miglioramento per gli stranieri che si traduce in un peggioramento di fatto
Nel passaggio dal RDC all’ADI si è ammorbidito il requisito di residenza sul territorio nazionale necessario per fare domanda, da 10 anni previsti dal RDC ai 5 anni stabiliti dall’ADI. Tuttavia, la nuova scala di equivalenza dell’ADI penalizza fortemente le famiglie numerose, spesso straniere, e questo effetto ha più che compensato l’allentamento del vincolo sulla residenza.
Dal Reddito di Cittadinanza all’Assegno d’Inclusione
Tra luglio 2023 (RDC) e giugno 2025 (ADI) infatti la riduzione percentuale nel numero di nuclei beneficiari è stata maggiore per gli stranieri (-40%) rispetto agli italiani (-35%), indicando una maggiore penalizzazione del primo gruppo rispetto al secondo con le nuove misure. Considerando quindi l’evoluzione delle misure nazionali, si è passati da una esclusione sistematica degli stranieri, determinata da un criterio molto severo sugli anni di residenza (10 anni) col RDC, a una esclusione che può risultare ancora più marcata coll’ADI, generata dall’inasprimento degli altri criteri di accesso (composizione familiare).
Caritas sempre più “paracadute” sociale
La riduzione dell’intervento pubblico ha generato un aumento consistente, e inatteso, delle richieste di aiuto presso le Caritas diocesane. Il problema, però, non riguarda solo la quantità dell’impegno richiesto alle Caritas, ma anche la sua natura. Se con il RDC molte famiglie riuscivano a coprire almeno le spese essenziali (affitto, bollette, alimentari) e si rivolgevano alla Caritas soprattutto per supporti integrativi o per la gestione di specifiche emergenze, ora si sta assistendo a un ritorno alle esigenze primarie.
Le richieste alla Caritas
Le richieste ai centri Caritas sono tornate a concentrarsi su beni di prima necessità: pacchi alimentari, pagamento di utenze, contributi per l’affitto, materiale scolastico per i figli. Un simile spostamento rischia di schiacciare l’azione della Caritas verso un’assistenza prevalentemente materiale e burocratica. Esiste il pericolo – in vari territori è già realtà – che venga messo in secondo piano un obiettivo fondamentale dell’approccio Caritas, cioè l’accompagnamento personalizzato della persona verso l’autonomia.
Caritas sembra sollecitata ad assumere soprattutto un ruolo di paracadute per evitare che chi sta cadendo in povertà precipiti al suolo rispetto a un ruolo di trampolino verso una vita migliore, attraverso opportuni percorsi di accompagnamento.
Supporto Formazione Lavoro: una misura da ripensare
Il Supporto per la Formazione e il Lavoro, nato per favorire l’attivazione e l’inserimento lavorativo, ha incontrato diverse difficoltà nella sua attuazione. La platea dei beneficiari resta ancora limitata e, secondo molte Caritas, i risultati occupazionali appaiono modesti: poche adesioni e inserimenti stabili rari.
In molti casi, i percorsi di formazione e i tirocini si sono rivelati esperienze brevi e poco incisive, seguite più per non perdere il sostegno che per reali opportunità di crescita. In diversi territori, il SFL è percepito come un aiuto temporaneo più che come un vero percorso di emancipazione, con il rischio di alimentare scoraggiamento anziché attivazione.
