Dopo avere contato i soldi delle estorsioni accumulate fino a quel momento, circa 3500 euro, decide di passare a chiedere il pizzo anche a un bar e a una concessionaria di auto. Dopo essersi messo in movimento in sella a uno scooter incontra in strada la compagna e la figlia, una bambina, alla quale scherzando dice: “mò babbo ti porta a fare l’estorsione”.
Emerge anche questo raccapricciante episodio dall’ordinanza con la quale, su richiesta della DDA (sostituto procuratore Giuliano Caputo), il gip Isabella Iaselli ha disposto 53 misure cautelari (43 in carcere e 10 ai domiciliari) al termine di indagini della Direzione investigativa antimafia di Napoli (guidate dal capocentro Claudio De Salvo e dal direttore Michele Carbone) che hanno inferto un duro colpo oggi al clan di camorra degli Amato-Pagano.
Per il protagonista dell’episodio, un 33enne, Luciano De Luca ascoltato dagli investigatori grazie alle intercettazioni ambientali, il giudice ha disposto il carcere.
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I dettagli sul clan Amato-Pagano
Puntava sui giovani, il clan Amato-Pagano, a cui insegnava come fare le estorsioni (un “addestramento alla durezza”) dopo averli irretiti utilizzando sapientemente i loro social preferiti, Tik-Tok e Instagram, sui quali venivano veicolati messaggi ed immagini di potere e ricchezza.
Ad illustrare i particolari dell’operazione sono stati il procuratore Nicola Gratteri, il direttore della Dia di Napoli Michele Carbone e il capocentro Claudio De Salvo.
Ed è stato proprio Gratteri ad evidenziare il “ruolo apicale” delle donne: il clan, una volta guidato da Rosaria Pagano, ora detenuta al 41bis, dal 2021 era sotto la reggenza di Debora Amato, 34 anni, figlia della Pagano e di Pietro Amato, membri delle due famiglie scissioniste uscite vincenti dalle cosiddette faide di Scampia che l’hanno viste contrapposte al clan Di Lauro. Al suo fianco, secondo inquirenti e collaboratori di giustizia e come hanno confermato anche le intercettazioni, Debora aveva una lunga serie di collaboratori, tra familiari stretti e affiliati.
Gli scissionisti, imponendo il pizzo anche a umili lavoratori come gli imbianchini, non solo volevano i soldi ma anche “il controllo del loro respiro”, ha sottolineato il procuratore. E sui social ostentavano il loro potere: foto di costosissimi orologi Rolex e Audemars Piguet; bottiglie di champagne Dom Perignon, cortei di auto lussuose tra cui Ferrari e Lamborghini, affiliati in costume su barche da sogno e mazzette di banconote da 100 e 50 euro a profusione. Soldi provenienti da una sorta di ‘cassa comune’ del clan, dalla quale venivano prelevate le ‘mesate’ per decine di affiliati, sia liberi che detenuti: circa 8.000 euro mensili. Gratteri ha anche ricordato che è stata la camorra, la prima in Italia, a usare i social per farsi propaganda e lanciare i suoi messaggi, “per mostrare di essere vincenti” e “normalizzare il crimine”.
Il clan era solito differenziare le richieste estorsive tenendo conto della capacità di pagare della vittima. Durante le festività venivano imposti i gadget natalizi; c’era poi il pizzo riscosso dalle aziende che lavoravano grazie ai superbonus fiscali e pure la gestione delle aste giudiziarie. Ma il core-business rimaneva il narcotraffico internazionale, storica attività di famiglia, coltivata grazie ad affiliati appositamente dislocati in Spagna e a Dubai. Nel novero delle attività illecite pure le case popolari: il clan si appropriava di quelle sfitte e poi le assegnava per gestire il consenso sul territorio. Tra i beni sottoposti a sequestro, frutto del riciclaggio, anche una società di noleggio e vendita di auto.
Gli affiliati detenuti, infine, dal carcere usavano i cellulari per tenersi in contatto con il clan.