Nel 1992, a Palermo, moriva un magistrato scomodo, umano, consapevole. Oggi, a celebrarlo, sono spesso proprio quelle istituzioni e quelle voci che un tempo avrebbero voluto la sua voce spenta.
L’uomo, prima del simbolo
Il 19 luglio 1992, una calda giornata palermitana sembrava scorrere come tante altre. Ma in quella casa, in via Mariano D’Amelio, il suono improvviso del campanello spezzò il silenzio.
Non era il suono gentile di una visita gradita, ma il preambolo di un orrore che avrebbe segnato per sempre la storia d’Italia.
Paolo Borsellino, il magistrato che aveva dedicato la vita a combattere la mafia, era lì, nel cuore della sua città, consapevole del pericolo che lo circondava. Poco dopo, l’esplosione travolse tutto oltre che la sua vita e quella dei cinque agenti della sua scorta anche la fragile speranza di un’Italia che voleva provare a cambiare.
Ma Borsellino non era un eroe di pietra. Era un uomo stanco, ma lucido, capace di ironia, spesso troppo solo. Anche nel giorno in cui il destino lo tradì, pensava a una giustizia che non si piegasse alle convenienze, a un futuro in cui la legalità fosse più forte della paura.
La retorica dell’eroe: comoda, sterile, ipocrita
Negli anni, la figura di Paolo Borsellino è stata trasformata in un’icona da cerimonia. Un simbolo perfetto per i discorsi ufficiali, le intitolazioni scolastiche, le passerelle istituzionali dove tutto si muove tra formalità e sorrisi di circostanza.
Ma più si moltiplicano le commemorazioni, più il significato profondo del ricordo si consuma. Si svuota, diventa un rituale senza sostanza.
Perché, in fondo, sono proprio quelle stesse voci quelle stesse mani che lui avrebbe voluto smascherare e combattere a cantare oggi le sue lodi. Politici complici, amministratori ambigui, identità di potere abili nel costruire carriere sulle spalle dei compromessi e dei silenzi con l’illegalità si ergono oggi a custodi della sua memoria.
Questa narrazione ufficiale, levigata e rassicurante, che dipinge la Repubblica come integerrima, è una maschera sottile ma pericolosa.
È comoda, perché non mette mai in discussione chi detiene il potere.
È sterile, perché produce parole vuote invece di azioni.
È ipocrita, perché celebra un martire mentre permette all’ingiustizia di prosperare.
Rompere il velo dell’illusione
Ricordare davvero Paolo Borsellino significa rompere il velo dell’illusione.
Liberarsi da quella memoria addomesticata che riduce tutto a una favola dove buoni, cattivi, complici e resistenti convivono sotto lo stesso cappello.
Significa infrangere il silenzio dell’omertà culturale che si traveste da “rispetto”, e guardare in faccia le responsabilità più scomode.
Significa dire, con coraggio e chiarezza, che Paolo Borsellino è morto anche a causa dello Stato.
Non dello Stato astratto o ideale, ma di quella parte marcia che ha trattato con la mafia, che ha sacrificato la verità sull’altare degli equilibri e delle convenienze.
È tempo di scardinare questa narrazione costruita per nascondere le verità più scomode.
È tempo di restituire a Borsellino non solo la memoria, ma la giustizia che merita.
“La lotta alla mafia non deve essere solo una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolga tutti.”
(Paolo Borsellino, giugno 1992)
Una scelta di campo
La memoria non è mai neutra. È una scelta di campo.
Ricordare Paolo Borsellino oggi non può essere un gesto simbolico, un uomo giusto non si onora con corone di fiori, ma con scelte concrete.
Ricordarlo qui, nel cuore del Sud, significa chiedersi: da che parte stiamo?
Sostenere inchieste coraggiose. Dare voce ai dissidenti. Rompere il muro dell’apatia e della rassegnazione.
Spezzare quel “tanto è sempre stato così” che ci tiene incatenati.
La memoria di Borsellino ci chiama all’azione in ogni forma.
Ci chiede di trasformare il ricordo in responsabilità, il lutto in cambiamento.
Solo così potremo onorarlo davvero.
Solo così potremo continuare la sua battaglia.
Senza lasciarlo mai più solo.