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venerdì, Giugno 21, 2024
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«Sibillo lo voleva morto», parla il neopentito del centro storico di Napoli

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Il clan Sibillo non era il gruppo granitico che tutti credevano. A confermarlo i verbali di Antonio Rivieccio ‘Cocò’, vera voce di dentro del gruppo di vico Santi Filippo e Giacomo. Il suo pentimento (leggi qui l’articolo) e le sue dichiarazioni hanno già innescato la gran mole di arresti del maxi blitz del mese scorso. Rivieccio, in uno dei suoi primi verbali, ha raccontato agli inquirenti che uno dei reggenti del gruppo stava per essere ucciso nell’ambito di un’epurazione interna. Tutto a causa di sospetti su degli ammanchi nella cassa comune del clan.

Lino Sibillo voleva la testa del ras Capuano

«Alla Maddalena c’era Nicolas Brunetti, sostituito, dopo il suo arresto, da Capuano Luca, a sua volta arrestato insieme a Francesco Pio Corallo, detto o’Nonno. Quest’ultimo a sua volta controllava San Gaetano». Rivieccio ha poi spiegato da chi era costituito il clan e chi erano i capi:«C’era a capo Ciro Contini, poi c’era Capuano Luca detto o’Cafone, c’era Francesco Pio Corallo detto o’ Nonno, Daniele Napolitano, Nicolas Brunetti, Giuseppe Gambardella e poi c’era Nancy, la moglie di Lino Sibillo che stava in carcere, che ci portava le lettere del marito detenuto a Terni, con le quali ci venivano impartiti gli ordini. Ricordo che una volta arrivò l’ordine di uccidere Capuano Luca perché era accusato di essersi impossessato di denaro appartenente a Lino Sibillo, ma sia io che Corallo dicemmo a Nancy di riferire a suo marito che noi non avremmo mai ucciso Capuano perché era un nostro fratello».

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Le tensioni nel clan Sibillo

 

Le crepe nel clan un tempo guidato dai fratelli Emanuele e Pasquale Sibillo hanno iniziato a mostrare i primi segni già alla fine del 2018 quando, con l’incarcerazione dei capi storici del gruppo la reggenza è passata nelle mani delle donne del clan e in quelle di Emanuele Irollo, giovane ras con trascorsi nel clan Mauro dei Miracoli. La cattiva gestione dell’ormai ex ‘paranza dei bambini’ emerge in tutta la sua drammaticità in una serie di intercettazioni in carcere dove gli affiliati detenuti del clan, grazie ad alcuni cellulari introdotti furtivamente, mantenevano i contatti con chi era fuori.

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