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giovedì, Marzo 28, 2024
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GOMORRA: LA RECENSIONE

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Una potente morsa allo stomaco, accompagnata da brividi lungo la schiena, con le orecchie frastornate dall’incedere pulsante del brano “Herculaneum” dei Massive Attack, ascoltato nei titoli di coda: si esce così dal cinema dopo esser stati letteralmente investiti da questo spettrale e conturbante capolavoro di Matteo Garrone, rilettura cinematografica del libro-inchiesta omonimo di Roberto Saviano. “Gomorra” è indubbiamente uno spettacolo che non si dimentica, con la sua atmosfera opprimente, senza vie d’uscita, con il suo realismo agghiacciante, quasi corporeo e un alone metafisico da tragedia. E’ un film lontano anni luce dal tocco epico, a volte quasi glamour dei filmoni hollywoodiani alla Scorsese o alla De Palma: lì abbiamo una sorta di western metropolitano, dove si fronteggiano grandi personaggi che quasi oscurano il contesto e dove non necessariamente si parteggia per il “buono”; qui l’orrore è quotidiano, quasi banale, fatto di ambienti desolanti, facce segnate da un destino a cui non ci si può e non ci si vuole sottrarre e in cui la violenza irrompe all’improvviso, quasi senza un perché, con gli spari a squarciare i silenzi. Non era affatto facile portare sul grande schermo il lavoro di Saviano, che ha anche contribuito alla sceneggiatura cinematografica ma Garrone è riuscito a dare vita propria al suo film, stilisticamente impeccabile, con l’uso sapiente della messa a fuoco, la telecamera che quasi “pedina” i personaggi, spesso ripresi in primo piano e frequenti panoramiche che suggeriscono un senso di smarrimento. Il film, insignito a Cannes del Gran Premio della Giuria e del premio Arcobaleno Latino, dedicato alla memoria di Gillo Pontecorvo, si articola in quattro vicende che si alternano; abbiamo il sarto Pasquale che, sfruttato dal suo datore di lavoro, per guadagnare di più decide di lavorare per i cinesi, finendo quasi per lasciarci la pelle. A Scampia, teatro della faida tra il clan Di Lauro e gli scissionisti, seguiamo le vicende di Don Ciro, interpretato da un bravissimo Gianfelice Imparato, che porta la “semmana” alle famiglie dei camorristi e che verso la fine del film cercherà il riscatto personale. Il sempre impeccabile Toni Servillo impersona un imprenditore che propone alle industrie del Nord lo smaltimento a costi dimezzati dei loro rifiuti tossici nelle discariche abusive della Campania. Il giovane tecnico Roberto, che lavora per lui, resosi conto del dramma abbandona Servillo, in uno dei pochi bagliori di speranza del film mentre in un’altra vicenda due ragazzi, Marco e Ciro, detto Pisellì, cresciuti col mito di Tony Montana e di Scarface, rubano armi in un arsenale della camorra, finendo poi uccisi dai Casalesi, che li attirano in un tranello. E’ questo il microcosmo di Gomorra, dove non esistono vie di mezzo, “o con noi o contro di noi”, come dice ad un certo punto un giovane camorrista al ragazzino Totò, dove già da ragazzi l’orizzonte è fatto di droga e soldi insanguinati e le persone sono “dead man walking” che vanno incontro all’ineluttabile.
Il film si chiude con le terribili didascalie che snocciolano i dati sugli omicidi di camorra degli ultimi trent’anni, con un morto ogni tre giorni, roba da Vietnam o da Iraq. La grandezza di quest’opera è tutta qui, nel crudo quanto lucido racconto di un meccanismo tragico che ingoia tutto e tutti. Un film “necessario”, gelido, scomodo.

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